La sfida di Trump alle rinnovabili, una battaglia che (forse) perderà

I fatti sembrano essere in contraddizione con le politiche ambientali di Trump: probabilmente non ci sarà un significativo decremento del settore rinnovabile a stelle e strisce. Da qui a cinque anni le esportazioni di carbone americano potrebbero essere messe fuori gioco dal mercato cinese

Non era ancora terminata la cerimonia di insediamento del presidente Trump, che dal sito della Casa Bianca era sparita la pagina dedicata al cambiamento climatico realizzata dalla precedente amministrazione ed era comparsa la nuova strategia energetica americana: “An America First Energy Plan”.

Qui la parola “America” è ripetuta 11 volte su un totale di 366 parole. Si dice chiaro e tondo che le politiche inserite nel Climate Action Plan e nel Waters of the U.S. rule sono dannose o, nel migliore dei casi, inutili. Verranno cancellate. Si dichiara una rivoluzione nell’estrazione dello shale oil & gas stimato in 50 milioni di milioni di dollari. E si promette che le rendite prodotte verranno reinvestite nella costruzione di strade, scuole, ponti e infrastrutture pubbliche, oltre che in un aumento degli stipendi stimato in 30 miliardi di dollari in 7 anni.

Coerentemente con la linea tenuta durante la campagna elettorale, nella nuova strategia non si accenna nemmeno alle energie rinnovabili. Non una parola sull’energia solare, sull’eolico o altre forme di energia sostenibile. L’aggettivo “pulito” ricorre solo due volte. La prima volta è associato alle tecnologie “pulite” per l’estrazione del carbone in un ambito di rivitalizzazione dell’intera industria mineraria.

L’obiettivo dichiarato è quello di rendere l’America indipendente dal cartello dell’OPEC e da “ogni altra nazione ostile ai nostri interessi”. Con la doverosa postilla che si continuerà a lavorare con “gli alleati del Golfo” per sviluppare il commercio dell’energia come parte dell’impegno antiterroristico americano.

Fortunatamente il penultimo paragrafo si incentra sulla protezione dell’aria e dell’acqua e sulla conservazione delle riserve e risorse nazionali, ma non si danno indicazioni su come si immagina di conseguire contemporaneamente i due obiettivi: la protezione dell’ambiente e la rivitalizzazione dell’industria dei combustibili fossili grazie a investimenti sullo shale oil & gas e sul carbone.

Purtroppo la nuova politica dell’amministrazione Trump si scontra frontalmente proprio con la maggioranza dei cittadini americani che l’hanno eletto solo tre mesi prima consegnandogli una inedita maggioranza anche alla Camera e al Senato. Secondo un rapporto del centro ricerche PEW, il 65% (+5%) degli americani sostiene che gli USA dovrebbero concentrarsi nello sviluppo di energie pulite e solo il 27% (-3%) sullo sfruttamento dei combustibili fossili. Queste le parole. Ma anche i fatti dicono che le energie rinnovabili americane sono in rapida crescita, le emissioni di CO2 sono in diminuzione e l’impiego del carbone viene progressivamente sostituito dal meno impattante gas naturale.

Trump dichiara che le politiche inserite nel “Climate Action Plan” e nel “Waters of the U.S. rule” sono dannose. Verranno cancellate. Per via di questa scelta, il nuovo Presidente degli USA si scontra con la maggioranza dei cittadini che l’ha eletto: il 65% degli americani sostengono lo sviluppo delle energie pulite nel loro paese

Vediamo come questa nuova linea presidenziale potrà tradursi nella pratica. Prima di tutto, finirà … in fumo … ogni impegno americano per il contrasto al cambiamento climatico: fra gli altri, finiranno nel cestino il Clean Power Plan, gli accordi di Parigi, verrà ridimensionata la Environmental Protection Agency. Inutile dire che la carbon tax non vedrà mai la luce. Il governo rimuoverà il blocco alla costruzione di nuovi gasdotti e oleodotti così come i vincoli alle trivellazioni su terreni pubblici o entro riserve naturali.

Però le compagnie petrolifere hanno già più pozzi di quelli che possono usare e – alla faccia delle dichiarazioni di principio – non si sognano nemmeno di produrre petrolio e gas dallo shale perché i costi di estrazione – ora – sono superiori ai 60-65$ al barile e sarebbe un suicidio estrarre greggio con quella spesa per poi venderlo sottocosto attorno agli attuali 55$.

Quello che manca sono gasdotti, oleodotti e infrastrutture per il trasporto. Per questo, è prevedibile che la Dakota pipeline verrà finalmente realizzata insieme a diverse altre pianificate all’interno degli USA. Altro discorso vale per gli oleodotti transfrontalieri: ad esempio la Keystone XL non sarà probabilmente costruita. Non grazie a Trump ma per l’opposizione del nuovo governo liberale canadese (anche perché era prevista principalmente per il trasporto del costoso shale da Alberta…).

Ma si osserva un fenomeno più interessante: è possibile che anche le rinnovabili, alla faccia del presidente, se la possano cavare bene. Infatti, la spinta principale – e la maggior parte degli incentivi – viene dai singoli Stati. Anche gli Stati supertrumpiani come Iowa, Texas, Georgia e Kansas sono stracolmi di pale eoliche e di imprese per la loro costruzione, trasporto, installazione, allacciamento e manutenzione. In Kansas l’industria del vento è praticamente l’unica in espansione. Non è una questione di principio, è una questione di costi: gli impianti solari costano fino al 70% in meno rispetto a dieci anni fa. Anche per l’eolico, pale sempre più grandi ed efficienti hanno abbassato significativamente il costo del kilowatt. Infatti, gli occupati nel settore dell’energia solare aumentano del 20% ogni anno ormai da sei anni, e le oltre 500 aziende che realizzano componenti per le pale eoliche sono distribuite in 43 Stati su 50.

Inoltre, il Congresso ha già esteso il credito sulle tassa di produzione da energie rinnovabili fino al 2021. Volendo dare retta ai fatti, non ci si può aspettare un significativo decremento del settore rinnovabile a stelle e strisce.

I fatti parlano: non ci si può aspettare un significativo decremento del settore rinnovabile a stelle e strisce. Anche gli Stati supertrumpiani sono stracolmi di imprese per lo sviluppo di energia rinnovabil. Alla faccia del Presidente

Come per i regolamenti sull’energia, anche la maggior parte dei regolamenti sulla tutela dell’ambiente sono di competenza dei singoli Stati. Qui la situazione è più complessa: si va dalla California, che si è data una stringente regolamentazione ambientale, fino all‘Oklahoma, che ne è quasi privo. E chi sbaglia paga, perché proprio l’aumento dell’attività sismica indotta dal fracking in Oklahoma ha spinto altri stati, da New York alla Pensylvania, a darsi regolamenti anti fracking.

In altri stati le cose vanno anche peggio per i fossili: ad esempio la California spinge decisamente sulle rinnovabili e ha l’obiettivo di raggiungere una quota rinnovabile del 50% entro il 2030. Altri 28 Stati hanno (e mantengono) obiettivi più o meno ambiziosi per la progressiva sostituzione dei fossili con fonti meno impattanti.

Il futuro del carbone rimane oscuro … come il carbone. Anche se il fracking ha i suoi guai, fra i quali l’induzione (occhio: l’induzione, non la creazione!) di terremoti, emissione di gas e acque di produzione, perdite di idrocarburi, questi passano in secondo piano rispetto al rilascio di particolati, metalli pesanti, solfuri, nitrati e altre schifezze che caratterizza l’uso del carbone.

Molti Stati hanno comunque avviato la transizione dal carbone al gas, e non si prevede che le future regolamentazioni federali produrranno cambiamenti di rotta.

Il carbone americano viene in misura significativa esportato proprio verso la Cina e il mercato asiatico, ma, ancora una volta, non è il governo centrale ma sono i singoli Stati a regolare il trasporto verso i terminali marittimi. Questi ultimi si trovano principalmente in California, Oregon e Washington e proprio qui sono iniziati i lavori di smantellamento dei terminali e delle infrastrutture ferroviarie connesse con il trasporto e l’imbarco del carbone.

Anche senza preoccuparsi troppo dell’inquinamento, l’estrazione di questo combustibile solido rimane una attività costosa e non seriamente competitiva rispetto agli altri idrocarburi. Inoltre, Pechino ha annunciato che nei prossimi cinque anni aumenterà fino al 19% la propria produzione di carbone, e non solo per i consumi interni. Questo metterebbe comunque fuori gioco le esportazioni di carbone americano certamente gravato da maggiori costi di estrazione rispetto a quello cinese.

Ora che anche a Dubai – che letteralmente galleggia sul petrolio – sta investendo pesantemente su enormi impianti solari, Trump e la sua guerra alle rinnovabili fanno venire in mente il protagonista di un noto romanzo di Miguel de Cervantes che, non a caso, se la prendeva proprio con … le pale eoliche.

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