TaccolaLe piazze piene non bastano: manuale per un’insurrezione di successo

Perché un sistema crolli non bisogna cercare vittorie epocali, ma erodere da dentro la struttura su cui si basa il consenso del potere. Fino a farlo crollare

Perché in Romania il ministro della Giustizia si è dimesso dopo giorni di manifestazioni? E perché poco prima in Polonia il governo aveva ritirato una legge sull’aborto dopo uno sciopero generale? Perché in Corea del Sud e Brasile nel corso del 2016 le manifestazioni hanno portato all’uscita di scena dei rispettivi presidenti? Come hanno fatto ad affermarsi nei decenni passati movimenti come quello per il voto alle donne e i diritti civili negli Usa? E soprattutto: perché altre proteste portate avanti in contesti simili non hanno dato gli stessi risultati? È quello che si è chiesto l’Harvard Business Review, in un paper chiamato “How Protests Become Successful Social Movements“. Come in una scheda di Wikihow, vengono elencati cinque passaggi chiave per ottenere il proprio obiettivo e poi per gestire la vittoria. Eccoli.

1- Definire il cambiamento che volete vedere

Pronti a protestare? Calma. Prima dove definire esattamente cosa volete che accada. È la prima e più importante chiave per la vittoria. Gandhi voleva l’indipendenza dal Regno Unito. Il movimento dei diritti civili voleva che passasse una legislazione specifica. Le varie rivoluzioni dei colori nell’Europa dell’Est e in Tunisia volevano un cambiamento di leadership. Erano obiettivi tangibili e attorno a loro si è costruita una strategia. Lo stesso vale per la Rivoluzione dei Bulldozer, che in Serbia portò alla destituzione di Slobodan Milošević (e a cui partecipò con un ruolo primario uno dei due autori dello studio, Srdja Popovic – l’altro è Greg Satell). Prendiamo invece la marcia delle donne che si è svolta a fine gennaio, per protestare contro l’atteggiamento di Donald Trump sulle donne. Qual era lo scopo? Le dimissioni di Trump? Quali misure specifiche si chiedeva di abolire? In mancanza di richieste precise, movimenti di protesta del genere sono destinati a evaporare. È un po’ il limite del movimento Occupy Wall Street, che, secondo gli autori pubblicati da Hbr, non è mai andato oltre gli slogan contro il troppo potere dei grandi gruppi finanziari e industriali. La conclusione: una rivoluzione non inizia con uno slogan ma con una chiara visione del cambiamento che si vuole vedere. Questo non significa essere rigidi: non bisogna provare a imporre la propria visione: la si condivide, si ascolta, si rispetta chi non ha la propria visione. Ma soprattutto, tutti devono sapere per cosa ti batti. La domanda è: “se avessi una bacchetta magica, cosa dovrebbe succedere in dettaglio?”.

Qual era lo scopo preciso della marcia delle donne di fine gennaio contro Trump? In mancanza di richieste precise, movimenti di protesta del genere sono destinati a evaporare

2- Spostare lo spettro degli alleati

Dunque, trovate un obiettivo. Fatto? (cit.). Ora è il momento di andare tra i tascabili super-economici in libreria e pescare “L’arte della guerra” di Sun Tzu. «Conosci te stesso, conosci il tuo nemico e conosci il terreno», diceva. Ecco, il terreno è rappresentato dallo spettro dei potenziali alleati. È il secondo passaggio fondamentale. Prendete di petto i vostri avversari e finirete nella polvere in un attimo. Là fuori ci sono persone che vedono le cose in modo diverso: alcune vi possono dare un supporto attive, altre un supporto passivo, altre potranno offrirvi nel migliore dei casi neutralità e nel peggiore un’opposizione passiva o attiva. I movimenti di successo non cercano di sopraffare gli avversari, ma minano gradualmente il loro supporto. Come? Bisogna partire dalla parte più ricettiva della gamma dei potenziali alleati. Una volta mobilitati i supporter più attivi, si passa ad affrontare gradualmente i vari livelli di resistenza. Prima provate a conquistare i supporter passivi, poi quelli neutrali. Siete quasi alla vittoria, che arriva quando si convincono gli oppositori passivi. Lo insegna il movimento dei dirittti civili. Martin Luther King e i suoi contemporanei hanno cominciato mobilitando i neri degli Stati del Sud, poi si sono rivolti ai bianchi: ma non a quelli degli Stati razzisti meridionali, a quelli liberal del Nord. Stessa tattica seguita da Harvey Milk e il suo movimento per i diritti di gay, lesbiche e transessuali: prima è partito dalla comunità gay di Castro Street, a San Francisco, poi è passato agli eterosessuali di sinistra dell’area di San Francisco.

La conclusione sembra adattabile anche al nostro scenario politico. La strada per la vittoria non è creare una coalizione attraverso un’inclusione forzata, ma piuttosto espandere i propri valori con tale chiarezza da persuadere gli altri a unirsi alla causa. «Gli imperi – si legge – non cadono perché la gente li contrasta, ma perché trovano il loro consenso eroso. Per vincere bisogna convincere gli altri a disertare».

«Gli imperi non cadono perché la gente li contrasta, ma perché si ritrovano con il loro consenso eroso. Per vincere bisogna convincere gli altri a disertare»

3- Identificare i pilastri del potere

Avete trovato un obiettivo e guadagnato un vasto supporto popolare. Ora c’è solo un problema: il potere è contro di voi. E cos’è il potere, nella sua essenza? Sono le istituzioni che hanno la possibilità di mettere in atto il cambiamento che state cercando. I “pilastri del potere” possono essere la polizia, i media, il sistema di istruzione, le agenzie governative o altre organizzazioni. Anche in questo caso gli autori del saggio si rifanno all’esperienza delle dimissioni di Milošević. «Il gruppo rivoluzionario Otpor vedeva gli arresti non semplicemente come un atto di sfida, ma come un‘opportunità per costruire relazioni positive relazioni con la polizia», scrivono gli autori. Chi protestava era stato formato a difendere i poliziotti da qualsiasi provocazione venisse dai propri ranghi. «Alla fine, quando la polizia si trovò di fronte alla scelta se sparare alla folla o unirsi alle fila del movimento, hanno scelto la seconda strada». Non sempre purtroppo finisce così. Occorre quindi avere una visione tattica (o politica) e chiedersi: quali portatori di interessi dentro o fuori il Palazzo hanno l’abilità di mettere in atto o resistere al cambiamento? Quali sono i loro incentivi? Come possono trarre benefici o essere danneggiati dal cambiamento che cerchiamo?

I “pilastri del potere” possono essere la polizia, i media, il sistema di istruzione, le agenzie governative o altre organizzazioni. Sono le istituzioni che hanno la possibilità di mettere in atto il cambiamento che state cercando

4- Cercare di attrarre, non di sopraffare

Non ci sarebbero le proteste se non ci fosse la volontà di correggere qualche ingiustizia. Ma attenzione: demonizzare l’avversario è una trappola e una strategia fallimentare (in Italia dovremmo saperne qualcosa, a partire dal 1994). È proprio su questo punto che molti movimenti deragliano. «La rabbia è un mobilitatore efficace, ma la rabbia senza speranza è una forza distruttrice – scrivono gli autori -. Bisogna creare un “caso positivo” con tattiche positive». È per questo, continuano, che bisogna iniziare con obiettivi piccoli e raggiungibili. In questo Gandhi è stato un campione. I suoi alleati volevano che si creasse un piano per un cambiamento complessivo. Lui intuì che una sola battaglia, anche piccola, avrebbe potuto unificare la nazione e rompere il monopolio di potere dell’impero anglo-indiano. Così nacque la battaglia sulla tassa sul sale. Volare basso, seguire una tattica a basso costo, semplice da replicare, a basso rischio, è la via che porta con più probabilità al successo. Per questa via si possono mobilitare molte persone e influenzare qualche “pilastro del potere”.

Il contrario di questo atteggiamento è l’istigazione alla rabbia. Bloccare le strade, tirare pietre alla polizia, secondo gli autori, ha come effetto probabile perdere l’appoggio degli alleati potenziali e rendere improbabile quello di uno dei “pilastri del potere”. Un esempio di rabbia mal gestita? Secondo la Hbr è quella dei “Bernie bros”, i sostenitori di Bernie Sanders durante le primarie dei Democratici Usa nel 2016. Hanno convinto solo i suoi sostenitori più accesi e allontanato quelli che avrebbero dovuto conquistare.

«La rabbia è un mobilitatore efficace, ma la rabbia senza speranza è una forza distruttrice»

5- Costruire un piano per sopravvivere alla vittoria

A questo punto molti di voi si saranno chiesti: e le disastrose Primavere arabe? E la Rivoluzione arancione in Ucraina? Avreste fatto bene. L’ultimo e cruciale punto riguarda lo stadio forse più pericoloso di una rivoluzione: la fase appena successiva alla vittoria. In Ucraina nel 2004 il gruppo uscito vittorioso dalle proteste si dimostrò incapace di creare un gorno unito ed efficace e presto il Paese tornò nel caos. Le proteste in Egitto nel 2011 furono guidate da gruppi “secolarizzati” ma alle elezioni prevalsero i Fratelli Musulmani guidati da Morsi. Gli esempi sarebbero tantissimi, anche in questo caso senza necessità di guardare troppo lontano. «Solo perché hai vinto un’elezione o il tuo programma è approvato e finanziato, questo non significa che sia tempo di dichiarare la vittoria. Infatti, è a questo punto che devi rafforzare le alleanze e rinnovare l’impegno di ciascuno stakeholder per quello che in un primo tempo ha portato al cambiamento», scrivono gli autori. D’altra parte, scriveva Moisés Naím in “La fine del potere”, oggi «il potere è più semplice da ottenere, ma è più difficile da usare e mantenere».

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