Di aziende smontate pezzo per pezzo l’Italia ne ha viste tante, negli ultimi dieci tormentati anni. Ma quando si parla Alitalia Maintenance Systems (Ams), la società che per anni ha revisionato e riparato i motori dell’ex compagnia di bandiera, non si tratta di una semplice metafora. Negli scorsi mesi i magazzini dentro il sedime aeroportuale di Fiumicino (Roma) sono stati effettivamente svuotati, tutti i pezzi che avessero un qualche valore sono stati portati via. Destinazione: Miami, dove ha sede la nuova società divenuta proprietaria degli asset di Alitalia Maintence Systems, la Iag, dopo un’asta al rialzo vinta nel giugno del 2016 (il valore finale è stato di 3,6 milioni di euro). C’è però un particolare: ogni giorno che passa aumentano sempre più i dubbi sulla giustificazione di questi spostamenti a Miami. Cioè che ci sia la necessità di rivendere i pezzi per fare cassa e usare i soldi per investirli in Ams. Il problema è di fronte a questi dubbi, così come rispetto agli impegni presi il 9 agosto al ministero dello Sviluppo economico alla presentazione del piano industriale, non ci sono risposte.
L’allarme che lanciano i sindacati è che l’impegno del piano di assumere entro il 2019 175 dei 237 lavoratori dell’azienda, quasi tutti ingegneri e tecnici di alta professionalità, sia destinato a diventare carta straccia. La mobilità degli ex dipendenti di Ams in alcuni casi è già scaduta, per gli altri il termine è ad aprile 2017. Gli unici lavoratori che le organizzazioni sindacali hanno visto all’opera è una dozzina di ex dipendenti di Ams che, assunti con contratti di poche settimane, hanno prelevato pezzi di motori CF6-50 (rivendibili a vecchi Boeing 747 ed altri vecchi aeromobili usati come cargo) e CF6-80, buoni anche per i Boeing 767.
I sindacati non sono gli unici in agitazione. La società di Miami, Iag, che per operare in Italia aveva fondato la Iag Engine Center Europe srl, ha visto le dimissioni del suo general manager italiano, Oreste Murri, che aveva lavorato per oltre 40 anni in Ams, nelle sue varie configurazioni societarie. Raggiunto al telefono da Linkiesta, Murri conferma di essere uscito dalla società quando ha capito che il piano industriale, da lui stesso redatto e presentato al ministero dello Sviluppo economico (Mise) lo scorso 9 agosto, non si sarebbe potuto realizzare perché non c’era la volontà di fare gli investimenti richiesti, ossia almeno 2-2,5 milioni di euro per il solo periodo di startup. «Il piano industriale deve avere dei presupposti di applicabilità e degli investimenti certi. Quando siamo andati a scoprire le carte, abbiamo visto che gli investimenti non li hanno messi», spiega. «Io ho cercato di coinvolgere i sindacati e il Mise in un ambito di riconoscimento e di rapporti – continua -. Mi sono impegnato a parlare con la proprietà e pretendere che fosse un serio piano industriale di partenza. Nel momento in cui ho visto che così non era, non potevo andare avanti. Come direttore generale e direttore dei lavori, se non avevo i soldi non potevo continuare». Tuttavia l’ex manager mette sul piatto anche un elemento nuovo, e cioè che una trentina di persone attualmente starebbe lavorando nel sito di Fiumicino per riorganizzare gli impianti, e non quindi per limitarsi a svuotarli. Circostanza che non è nota alle altre parti coinvolte. La società Iag, aggiunge, è specializzata soprattutto nella compravendita di aerei e di motori; «l’officina le dà supporto e pregio, ma non c’è una visione industriale con un futuro».
La società Iag, che si è aggiudicata Alitalia Maintenance Systems all’asta nel giugno del 2016, aveva presentato un piano industriale in cui si impegnava a fare investimenti e ad assumere 175 persone in tre anni. Ma gli investimenti non sono arrivati, il general manager della società italiana si è dimesso e l’incontro al Mise del 13 dicembre è stato diseratato
Ora al Mise confermano tutte le preoccupazioni e parlano di situazione grave. Il proprietario della Iag di Miami, Mauricio Luna, di origini colombiane, non si è presentato a un incontro fissato al ministero lo scorso 13 dicembre e si è limitato a mandare una mail il giorno prima. Ad attenderlo invano c’erano i sindacati, i curatori fallimentari nominati dal tribunale di Roma, la Regione Lazio e il tavolo di crisi del ministero. La società ha negato ogni rapporto con i sindacati, denunciano le organizzazioni, mentre al Mise spiegano che un nuovo incontro ci dovrebbe essere a metà febbraio. È già il tempo delle recriminazioni. Al Mise lamentano di essere stati coinvolti troppo tardi, nel novembre 2015, quando già la situazione era compromessa. Il fallimento era arrivato poco prima, nel settembre 2015. In seguito c’è stata una prima asta, per fitto d’azienda, andata deserta. Una seconda, a maggio, ha invece previsto la vendita solo delle attività, quindi solo le parti di ricambio e le attrezzature. Non una vera azienda, insomma. «Noi abbiamo preso atto delle decisioni della curatela,che ha assegnato a questo signore (Mauricio Luna, ndr) l’azienda, o meglio le attività dell’azienda. Non siamo potuti intervenire, non siamo noi i curatori fallimentari», dice Giampietro Castano, responsabile dell’Unità per la gestione delle vertenze del Mise. «Abbiamo chiesto a questo signore – continua -, vista l‘importanza del settore in cui opera, di far conoscere al governo il suo piano industriale. Piano che allo stato dell’arte è ancora molto generico. Anche perché (Luna) ha acquisito gli asset senza acquisire contemporaneamente tutte le autorizzazioni necessarie. Stiamo parlando di un business molto delicato che presuppone giustamente autorizzazioni di varia natura, sia per l’ingresso nel sedime aeroportuale sia per autorizzazioni che le varie autorità devono dare perché chi opera sia certificato nella gestione di un bene delicato e complesso come è il motore per aerei». Insomma, servono risposte. «Ci troviamo di fronte a una situazione un po’ imbarazzante – commenta Castano -. Questo signore è presente in Italia sporadicamente, quando è presente non dà le risposte che tutti quanti ci aspettiamo circa il piano industriale. Quindi siamo in una situazione di incertezza abbastanza grave. A metà febbraio, quando verrà qui, spero che porti notizie chiare». Altro particolare è che la Iag non starebbe pagando l’affito del magazzino di Fiumicino (di proprietà di Aitalia in amministrazione straordinaria), pari a 65mila euro al mese, a partire dallo scorso settembre.
I sindacati nell’asta della scorsa primavera avevano appoggiato l’offerta di un’impresa concorrente, la più qualificata Jetran, che aveva presentato alle istituzioni e agli stessi sindacati piani di rilancio industriale e recupero occupazionale. Da subito sono iniziati i comunicati in cui si manifestava la preoccupazione sulle intenzioni di Iag. Oreste Murri, che ha seguito la vicenda quando era dentro Iag (per la quale ha lavorato per quasi un anno a Miami dopo il fallimento di Ams nel settembre 2015), ribalta sul curatore fallimentare la perdita di tempo che ha portato, dal fallimento del settembre 2015 al maggio 2016, alla scadenza del contratto con Alitalia (“esclusiva decennale, scaduta il 20 gennaio”), e alla perdita delle licenze per operare date dall’Enac, lo scorso marzo. Licenze che non sono state acquisite, come conferma l’Enac a Linkiesta. L’ex general manager di Iag Engine Center Europe specifica che una prima richiesta all’Enac c’era stata, poi bloccata per un vizio di forma. Murri conferma anche un particolare evidenziato dai sindacati, ossia che il pagamento dei circa 4 milioni di euro (tasse comprese) per l’acquisizione sia avvenuto in contanti. I sindacati sottolineano come la Iag si sia appoggiata alla fiduciaria Finnat, istituto che gestisce affari di diverse famiglie romane legate al Vaticano e il cui presidente, Giampietro Nattino, è stato indagato nel novembre 2015 per riciclaggio.
I dubbi dei sindacati riguardano le intenzioni del proprietario di Iag, il colombiano Mauricio Luna, che per comprare Alitalia Maintenance Systems si è presentato con i contanti
I guai della società Alitalia Maintenance Systems iniziano però molto prima dell’ultimo capitolo e dicono molto di come il nostro Paese riesca a lasciare al proprio destino aziende considerate fino a poco tempo prima delle eccellenze. Da semplice divisione dentro Alitalia, Ams divenne una società nel 2003, quando fu costituita una joint-venture con una società di Lufthansa, per riparare motori di entrambe le compagnie. Già all’epoca si assistette, spiega Murri, che in Ams fu direttore tecnico e poi commerciale, a uno spostamento delle attività più pregiate verso la Germania. Il 2005 segna il passaggio sotto Alitalia Servizi, sempre gruppo Alitalia. Ma i veri problemi iniziano a partire dal 2008, quando fallisce la vecchia Alitalia Lai (Linee Aeree Italiane), subentra Cai e il 25% dell’azionariato va ad Air France-Klm. Lufthansa esce, Ams si ritrova con un azionariato composto al 66% dal professor Maurizio Tucci, il 15% da Alitalia e il 19% da una società di manutezione dei motori israeliana, la IAI-Bedek. I primi due anni, raccontano i sindacati, furono positivi (negli anni passati il fatturato era arrivato a 90 milioni di euro). Le cose andarono peggiorando negli anni successivi, per effetto di una commessa arrivata in ritardo ad Alitalia (secondo i sindacati per responsabilità di una terza ditta a cui era stato affidato un incarico) ma anche a causa di uno spostamento progressivo delle commesse verso Israele. Tra le responsabilità dell’affossamento dell’azienda, commenta Murri, c’è stata la troppa timidezza in investimenti che avrebbero potuto proiettare l’attività verso il futuro, come il trading di motori e la manutenzione di motori aeroderivati per le centrali elettriche. Quando la società entra in stato prefallimentare, con il concordato preventivo, viene meno il credito da parte dei fornitori, la Bedek compra varie parti di ricambio, il fatturato scende da 60 a 10 milioni. Game over, con farsa finale: il farsi avanti di una fantomatica società medio-orientale, la Panmed, alle cui offerte aveva invece dato molto credito il ministero dei Trasporti guidato da Maurizio Lupi. La ricostruzione di Murri e dei sindacati concorda con quella del Mise: « L’azienda era stata depauperata sulla base di promesse fatte da fantomatici fondi mediorientali, assolutamente inesistenti – spiega Castano -. Sulla base di queste promesse, di questi falsi impegni, l’azienda non è stata ricapitalizzata, è stata lasciata andare alla deriva. A noi è stata presentata quando era chiaro che la Panmed non c’era e che l’azienda era destinata al fallimento». La vera domanda ora riguarda ovviamente il futuro. Che possibilità ha di andare avanti una società che oggi ha mantenuto le competenze ma è ferma per investimenti al 2008? Una risposta potrà venire solo con un piano industriale serio.