Le relazioni fra USA e Libia risalgono al 1951, quando il Paese divenne uno Stato indipendente guidato da una monarchia dopo il trentennio coloniale italiano ed altri otto anni di amministrazione anglofrancese. Gli americani insediarono numerose basi militari in un territorio strategico per il controllo del Mediterraneo, del turbolento Medio Oriente ma anche del Sud Europa; Italia compresa.
Eni iniziò a lavorare in Libia nel 1959 per verificare se per caso, sotto quello che Gaetano Salvemini nel 1911 definì “uno scatolone di sabbia”, ci fosse mica qualcosa di utile. Fu così che, con la scoperta dei primi giacimenti di idrocarburi, lo sterile scatolone lasciato alla conquista italiana del 1911 – principalmente perché nessun impero coloniale vi aveva trovato nulla di utilizzabile – divenne uno dei principali paesi produttori di petrolio e gas.
Attualmente le riserve di idrocarburi in Libia sono le più grandi dell’Africa e fra le dieci più vaste del mondo. Se la produzione tornasse ai livelli record (1,65 milioni di barili al giorno) raggiunti ai tempi dell’ultimo Gheddafi, le riserve – stimate in 63 miliardi di barili di petrolio e 15 miliardi di barili equivalenti di gas naturale – durerebbero per un secolo anche senza nuove scoperte. Ma le sorprese continuano nonostante sei anni di guerra: l’ultima in ordine di tempo risale al 2015, quando Eni ha annunciato la scoperta di un ennesimo giacimento nel prospetto Bouri Nord a 140 km dalla costa. Solo per Bouri si parla complessivamente di riserve per 4,5 miliardi di barili di petrolio più 600 milioni di barili equivalenti di gas naturale.
Nel 1963, con le prime scoperte di idrocarburi, gli americani capirono che la Libia non era strategica solo dal punto di vista militare: Exxon, Mobil e altre quattro compagnie americane sbarcarono al seguito delle truppe ottenendo vaste concessioni per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo. Queste compagnie batterono in ritirata nei primi anni ottanta col deteriorarsi delle relazioni fra l’amministrazione Reagan e la Jamahiriyya per poi ritornare in Libia solo nel 2005 dopo la più grande fusione della storia che diede origine alla Exxon-Mobil.
Eni iniziò a lavorare in Libia nel 1959. Con la scoperta dei primi giacimenti di idrocarburi lo “scatolone di sabbia” divenne uno dei principali produttori di petrolio e gas. Gli americani capirono che la Libia non era strategica solo dal punto di vista militare
Nel 2011, sei mesi dopo l’inizio della rivolta libica, gli USA intervennero a fianco di Regno Unito e Francia (con l’appoggio di Berlusconi) per fare crollare il regime della Jamahiriyya senza prevedere un piano per il dopo-Gheddafi e provocando il più grande disastro degli ultimi 50 anni dopo il Vietnam. Lo stesso Obama ammise che quello fu il più grave errore commesso nei suoi otto anni alla Casa Bianca.
Sempre nel 2011, Donald Trump diede il suo pieno sostegno alla guerra anche se, durante la campagna dell’anno scorso, ha cercato di raccontare che lui era contrario. Questa balla aveva evidentemente lo scopo di scaricare sul Segretario di Stato di allora, Hillary Clinton, la responsabilità del disastro.
Ora sarà interessante capire che rapporti vorrà avere Trump con la Libia. Ma è significativo che abbia nominato Rex Tillerson – ex amministratore delegato di Exxon-Mobil – come suo Segretario di Stato. Va anche notato che il generale Khalifa Haftar – capo del “governo di Tobruk” che si oppone al governo sostenuto dall’Onu di Fayez al-Serraj – ha salutato con entusiasmo il risultato delle Presidenziali USA non nascondendo la speranza che si realizzi un asse di cooperazione fra Trump, Putin, il presidente egiziano al-Sisi e lui stesso.
La freddezza mostrata finora dagli americani verso il settantacinquenne Haftar ha varie ragioni. Prima di tutto, questo non governa l’intera area orientale della Libia ma – nonostante l’aiuto degli Emirati e dell’Egitto – mostra difficoltà a eliminare le ultime sacche di resistenza del Califfato da alcuni distretti di Bengasi dove alcune centinaia di terroristi continuano a controllare il territorio. Per questo, non sembra ora così probabile che possa rapidamente conquistare la Libia occidentale, incluse Tripoli e Misurata. Qui, infatti, l’arcipelago di milizie armate è ancora solido, ben equipaggiato e complessivamente superiore alle forze dei due governi antagonisti. Per questo motivo, nonostante le manifestazioni di amicizia fra la Russia e il governo di Haftar, tanto Washington quanto Mosca in questo momento stanno tenendosi aperte tutte le opzioni. Hanno ormai compreso il reale potenziale di Haftar e ritengono poco probabile che, senza un deciso aiuto esterno, possa effettivamente raggiungere il pieno controllo dell’intero Paese. Piuttosto, è elevato il rischio che possa riacutizzare la guerra civile che sta dilaniando il Paese ormai da sette anni.
In questo momento i due più influenti consiglieri di Trump sulle politiche mediorientali – Steve Bannon e il libanese immigrato Walid Phares – stanno conducendo colloqui informali con numerosi esponenti libici di entrambi gli schieramenti. I russi intanto – dopo aver organizzato la plateale visita di Haftar a bordo della portaerei russa Ammiraglio Kuznetsov al largo della Cirenaica – hanno invitato al-Serraj per una visita ufficiale direttamente a Mosca.
Oltre alle questioni militari, si prevede che i russi discuteranno con al-Serraj della possibile riattivazione dei contratti stipulati dalla compagnia di Stato Gazprom nel 2011 per l’esplorazione e la produzione di olio e gas. A questi si aggiungono quelli per la realizzazione di 600 km di linea ferroviaria Bengasi-Sirte e la possibile realizzazione di un altro tratto ferroviario Tripoli-Tobruk. In totale si parla di 10 miliardi di dollari in contratti congelati da sei anni contando soltanto quelli già firmati da Gheddafi.
È ovvio che, vista l’importanza politica, militare e – soprattutto – energetica della Libia, tanto la Russia quanto l’America abbiano maturato una visione strategica di lungo periodo sull’ex “scatolone di sabbia” e non vogliano ora sbilanciarsi troppo fra Haftar e al-Serraj per non rischiare di puntare sul cavallo sbagliato.
Anche Al-Sisi ha fiutato l’aria e – dopo aver sostenuto attivamente Haftar per oltre tre anni – in questi giorni sta avvicinando milizie anti-Haftar nella zona occidentale, soprattutto a Misurata.
Ora la Libia sta rifornendo di gas l’Europa attraverso il Green Stream che collega i giacimenti Eni di Wafa e Bahr Essalam al terminale di Mellitah sulla costa e poi alla raffineria Eni di Gela attraverso 520 km di condotte che attraversano il Mediterraneo. Green Stream ha una capacità di 8 miliardi di metri cubi/anno ma ora l’intera Libia produce in tutto solo poco più di 7 miliardi di metri cubi/anno a causa della guerra civile.
Il potenziale produttivo della Libia è però enorme e sarebbe in grado di soddisfare una fetta considerevole del fabbisogno energetico europeo. Una piena ripresa della produzione non solo garantirebbe al governo libico un flusso di cassa enorme, ma renderebbe l’Europa meno dipendente dal gas russo. Per questo Mosca farà di tutto per permettere a Gazprom di acquisire una quota del business energetico libico e delle esportazioni verso l’Europa.
In parallelo, anche Washington, con l’ex CEO di Exxon-Mobil al timone della politica estera americana, non vorrà certo rinunciare a una fetta di torta dopo aver tessuto una rete di relazioni con la Libia per buona parte degli ultimi 60 anni.
In queste condizioni è importante che l’Italia – vaso di coccio tra i vasi di ferro ma da sempre il più importante partner energetico della Libia – possa e voglia esercitare tutte le azioni diplomatiche necessarie per non farsi tagliare fuori.
Sarà interessante capire che rapporti vorrà avere Trump con la Libia. Sia Washington che Mosca hanno compreso il reale potenziale della Libia, e in questo momento stanno tenendosi aperte tutte le opzioni. importante che l’Italia eserciti tutte le azioni diplomatiche necessarie per non farsi tagliare fuori
Nonostante la guerra, arriva qualche buona notizia proprio dal giacimento offshore di Bouri operato da Eni e dalla Compagnia Petrolifera Nazionale libica (NOC): proprio questo mese una nuova piattaforma galleggiante (FSO) ha ultimato con successo il riempimento della sua prima petroliera in mare aperto. Prodotta dalla STX in Corea del Sud, la nuova piattaforma FSO Gaza è una gigante imbarcazione di 324 per 51 m (circa tre campi da calcio) ed ha capacità pari a 1,5 milioni di barili di petrolio. È costata 424 milioni di dollari ed è giunta nella sua sede di operazione a maggio 2016.
Abbiamo visto come il puzzle libico sia tutt’altro che vicino ad una soluzione sia a causa delle tensioni interne – principalmente tra al-Serraj e Haftar ma senza dimenticare l’arcipelago di tribù in guerra fra loro – che a causa delle tensioni esterne fra USA, Russia e, nel suo piccolo, l’Italia. È però importante per tutte le parti in causa che si crei quel minimo di consenso necessario per dare vita a un Paese stabile e unito.
Senza questo prerequisito indispensabile, non c’è trippa per gatti per nessuno. Ed è quello che ancora spera Isis…