«Ormai Renzi sta antipatico anche a se stesso». Il Cinque Stelle Alessandro Di Battista esagera volutamente, nella nota modalità di comunicazione grillina. Eppure tocca un argomento tutt’altro che banale. Saranno gli strascichi della scissione, la dura sconfitta al referendum costituzionale, la scomparsa di incarichi di partito e di governo. Fatto sta che da qualche tempo attorno all’ex premier rottamatore il vento è cambiato. Sia chiaro, al Nazareno non ci sono rivolte in corso. Renzi non è stato abbandonato dai suoi più stretti collaboratori e anzi, con ogni probabilità sarà presto riconfermato segretario del Pd. Eppure il clima è diverso. Leader indiscusso della maggioranza dem fino a pochi mesi fa, ormai è divenuto l’oggetto di critiche e prese di distanza quasi quotidiane. Spesso proprio da parte di chi un tempo gli era più vicino. Ministri, giornalisti, parlamentari…
Domani intanto si apre l’appuntamento del Lingotto. Tre giorni di lavori dalla simbolica ambientazione – qui Veltroni battezzò il Pd una decina di anni fa – dove Renzi presenterà la sua candidatura alla guida del partito. Una sfida inedita. L’ex premier ha annunciato di voler accantonare il protagonismo di un tempo e scenderà in campo in ticket con il ministro Maurizio Martina. Ma la partita congressuale difficilmente sarà una marcia trionfale. Con le ombre del caso Consip sullo sfondo, la leadership di Renzi stavolta divide il partito. E se l’ex segretario sembra quasi certo di superare gli sfidanti Andrea Orlando e Michele Emiliano, non è affatto detto che la partita si concluda con un successo travolgente.
Al netto del risultato, il congresso si porta dietro una sequela di polemiche, dubbi e diffidenze. Nel partito è tutto un fiorire di rivendicazioni e inviti all’autocritica. Più o meno silenziosamente, la lista dei dirigenti dem che dopo essersi avvicinati al renzismo iniziano a prenderne le distanze aumenta giorno dopo giorno
Al netto del risultato, il congresso si porta dietro una sequela di polemiche, dubbi e diffidenze. Nel partito è tutto un fiorire di rivendicazioni e inviti all’autocritica. Più o meno silenziosamente, la lista dei dirigenti dem che dopo essersi avvicinati al renzismo iniziano a prenderne le distanze aumenta giorno dopo giorno. La cronaca politica registra il passaggio con Orlando di almeno un centinaio di parlamentari. Si sono schierati con il Guardasigilli la ministra Anna Finocchiaro e il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. E con loro ci sono Goffredo Bettini, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi. Un fronte trasversale che accomuna esponenti lettiani, prodiani, giovani turchi. Persino il grande sponsor renziano di un tempo, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è da tempo legato al ministro della Giustizia.
È un fenomeno umano, forse inevitabile. Il vecchio vizio italico di salire e scendere dal carro del vincitore a seconda della convenienza. Un’attitudine che raramente risparmia chi perde poltrone e potere. Intervistato dal Tempo, Silvio Berlusconi ne fa una questione di appartenenza politica: «Il Pd non perdona e nelle faide interne non si è persa la vecchia tradizione comunista: tutti addosso a chi cade in disgrazia, compresi coloro che fino al giorno prima gli erano vicini». Il Cavaliere probabilmente esagera. Anche lui qualche anno fa è stato vittima delle stesse dinamiche. Ma è difficile non notare il nuovo clima che si respira al Nazareno e dintorni. Ormai dubitare del leader non è più un tabù. Un esempio? Due giorni fa il governatore piemontese Sergio Chiamparino e il sindaco di Milano Beppe Sala hanno scritto una lunga lettera aperta all’ex segretario. Un appello non privo di critiche. «Renzi accetti l’idea di un cambiamento nella qualità della sua leadership politica» si leggeva sulle colonne di Repubblica. E ancora: «È decisivo per Renzi non rinchiudersi in gruppi ristretti ma avere la disponibilità a veleggiare in mare aperto con nuovi equipaggi non necessariamente composti da persone di stretta osservanza del capitano».
È un fenomeno umano, forse inevitabile. Il vecchio vizio italico di salire e scendere dal carro del vincitore a seconda della convenienza. Un’attitudine che raramente risparmia chi perde poltrone e potere. «Il Pd non perdona – dice Berlusconi – e nelle faide interne non si è persa la vecchia tradizione comunista: tutti addosso a chi cade in disgrazia, compresi coloro che fino al giorno prima gli erano vicini»
I rapporti cambiano, i dubbi vengono espressi alla luce del sole. Il nuovo vento spira anche a Palazzo Chigi. Nonostante la rapida smentita, qualche giorno fa il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda è arrivato a criticare le ultime politiche renziane. A partire dai bonus. «Per creare lavoro e reddito non esistono scorciatoie – le sue parole registrate durante un evento al Quirinale – non esistono invenzioni di redditi, invenzioni di lavori, invenzioni di bonus. Esiste costruire le condizioni di competitività affinché le imprese possano assumere». Il senso è stato frainteso? Chissà. Eppure in molti hanno attribuito lo stesso significato anche alle recenti dichiarazioni del premier Paolo Gentiloni. In diretta tv, domenica scorsa il presidente del Consiglio ha confermato che il suo esecutivo durerà fino al termine della legislatura. Un’ovvietà istituzionale, certo. Ma anche una presa di distanze da chiunque spera di tornare alle urne anzitempo. Magari proprio Matteo Renzi. Nessuna polemica, ci mancherebbe. In questi giorni il capo del governo è atteso al Lingotto insieme ad altri esponenti del suo esecutivo. Nel Paese, intanto, Gentiloni ha iniziato a riscuotere un’inattesa popolarità. Lo dicono i sondaggi. Agli italiani il premier sembra piacere per i toni bassi, l’approccio rassicurante e l’assenza di protagonismo. Sarà un caso?