Donald Trump non vuole rinunciare al divieto di ingresso negli Usa per i cittadini di alcuni Paesi musulmani. Dopo lo stop al precedente provvedimento, prima da parte di un giudice di New York poi di un giudice federale, la Casa Bianca torna a presentarne uno analogo che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 16 marzo. Restano le tempistiche previste già nella prima versione: 90 giorni di stop agli ingressi per i cittadini dei Paesi della lista, 120 giorni di stop per i rifugiati. Ma si registrano alcune significative differenze.
Sparisce innanzitutto il divieto di ingresso per i cittadini stranieri regolarmente residenti, in possesso cioè della “carta verde”, che era stato uno dei motivi della bocciatura del precedente provvedimento da parte dei giudici. Eliminato poi il riferimento ai profughi “cristiani” che avrebbero goduto di un trattamento privilegiato rispetto ai musulmani. Infine dalla lista originaria di 7 Paesi ne sparisce uno, l’Iraq. In questo modo il nuovo “travel ban” di Trump diventa se possibile ancora più irrazionale e ideologico del precedente.
Il primo tentativo era stato criticato perché – al di là della questione “green card” e discriminazione positiva per i cristiani – la lista dei 7 Paesi (Iraq, Iran, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen) comprendeva tutti Stati i cui cittadini non hanno mai compiuto nemmeno un singolo attentato letale sul territorio degli Usa, mentre gli Stati di origine degli attentatori ad esempio dell’11 settembre 2001 o di altre stragi (come Arabia Saudita, Egitto e Libano) non venivano inclusi.
In questo modo il nuovo “travel ban” di Trump diventa se possibile ancora più irrazionale e ideologico del precedente
Ma, in uno sforzo giustificativo di un provvedimento più dettato da ragioni di propaganda che non da reali esigenze di prevenzione, si sarebbe potuto argomentare che l’imminente crollo dello Stato Islamico pone una questione speciale per i Paesi che ne saranno coinvolti in termini di pericolosità del flusso migratorio, e dunque uno stop agli ingressi di 90/120 giorni per meglio attrezzarsi di fronte a questa sfida non è del tutto privo di fondamento.
Peccato che proprio l’Iraq, che è l’unico Stato rimosso dalla lista rispetto alla sua prima versione, sia la culla dello Stato Islamico e, insieme alla Siria, il Paese che maggiormente ne ha subito e ne subisce ancora la presenza. L’Isis nasce infatti dalla mente di ex ufficiali dei servizi segreti di Saddam Hussein che hanno unito le forze con fazioni jihadiste sunnite locali. Prima di tracimare nella provincia sunnita di Anbar in Iraq a fine 2013/inizio 2014, l’Isis ha approfittato della guerra civile siriana per espandersi e rafforzarsi in quel Paese tra il 2012 e il 2013. Solo successivamente alla proclamazione del Califfato sui territori iracheni e siriani è riuscito a mettere piede anche in Libia, da cui è stato comunque di recente sradicato, e in Yemen, dove non ha tuttavia una vera e propria presenza statale.
Ma le perplessità sull’esclusione della sola Baghdad non finiscono qui. L’unico precedente rilevante in materia di rifugiati provenienti dai Paesi della lista e terrorismo riguarda infatti proprio l’Iraq: nel 2011 furono arrestati due profughi iracheni per aver tentato di inviare denaro e armi ad Al Qaeda nel loro Paese d’origine per fomentare la guerriglia contro gli Usa. Fu proprio in seguito a questo episodio che Obama impose una stretta temporanea, e comunque non totale, sul flusso di rifugiati dal Paese mediorientale verso gli Usa.
Dunque perché è stata esclusa proprio Baghdad dall’elenco? Nel testo del nuovo “travel ban” di Trump si legge che “le relazioni di stretta cooperazione tra gli Usa e il governo democraticamente eletto dell’Iraq, la forte presenza diplomatica degli Usa in Iraq, la significativa presenza di forze Usa in Iraq e l’impegno dell’Iraq a combattere lo Stato Islamico giustificano un diverso trattamento per l’Iraq“, e ancora che “l’Isis è un nemico comune per Iraq e Usa”.
Teheran supporta infatti sia le milizie sciite irachene che combattono a fianco dell’esercito contro lo Stato Islamico, sia il regime siriano di Assad, a sua volta nemico dell’Isis e di Al Qaeda
Se la prima parte della giustificazione sembra un po’ debole, la seconda palesa la natura ideologica – se non irrazionale – del criterio con cui sono stati scelti i Paesi inclusi nella lista. Se è vero infatti che l’Iraq è attivamente coinvolto nella guerra contro l’Isis, attualmente nell’offensiva per la liberazione di Mosul, è altrettanto vero che lo è anche l’Iran. Teheran supporta infatti sia le milizie sciite irachene che combattono a fianco dell’esercito contro lo Stato Islamico, sia il regime siriano di Assad, a sua volta nemico dell’Isis e di Al Qaeda. Anche in Yemen i ribelli sciiti Houthi, sostenuti da Teheran, sono nemici delle branche locali di Al Qaeda e dello Stato Islamico. Lo Stato Islamico è infatti un’organizzazione fanatica sunnita, mentre l’Iran è il capofila dell’asse sciita, composto inoltre proprio dall’Iraq, dalla Siria di Assad e dall’Hezbollah libanese.
Dunque, eliminando il fattore “Isis nemico comune”, quello che Trump concede a Baghdad è una sorta di riconoscimento politico per essere uno Stato “satellite” degli Usa. A parte il fatto che l’Iraq è attualmente più un satellite dell’Iran – e che oltretutto guarda con interesse a Mosca -, una motivazione del genere rende evidente l’assenza di una considerazione basata sulla prevenzione del rischio alla radice del “travel ban”. Se prima dell’esclusione di Baghdad dalla lista nera di Trump c’erano forti in dubbi in proposito, adesso è una certezza: il terrorismo non c’entra niente.