Mentre a Ginevra proseguono i colloqui di pace sulla Siria, in Siria – dove la pace non si vede all’orizzonte – i colloqui privati di Putin sembrano aver iniziato a produrre alcuni interessanti risultati sul campo. La diplomazia russa sta facendo la parte del leone nello scacchiere mediorientale da circa un anno e mezzo, dall’intervento in Siria di settembre 2015, che ha reso evidente il vuoto lasciato dall’amministrazione americana democratica e che lo ha colmato.
Da quando poi Donald Trump ha inaspettatamente vinto le elezioni, a fine 2016, con parole d’ordine concilianti verso Mosca, gli occhi di tutti i principali attori del Medio Oriente si sono rivolti definitivamente al Cremlino. E se i colloqui di pace in Kazakhstan ad Astana – tra regime e ribelli, presenti Turchia, Iran e Russia, e assenti i curdi, come anche a Ginevra – non hanno prodotto risultati diplomatici evidenti, gli sviluppi tattici della guerra siriana sembrano chiaramente indicare una significativa capacità della Russia di influenzare lo scenario.
In primo luogo è fresca la notizia della riconquista di Palmira da parte del regime di Assad (v. cartina 1). La cittadina e il meraviglioso sito archeologico erano stati liberati da russi e lealisti già a fine marzo 2016. La Russia aveva celebrato la vittoria il maggio seguente, portando lì l’orchestra di San Pietroburgo a suonare per le truppe nel teatro romano (all’epoca ancora intatto o quasi). A distanza di pochi mesi, proprio mentre Mosca e Assad si apprestavano a liberare definitivamente Aleppo ovest dai ribelli a dicembre 2016, l’Isis con un’improvvisa offensiva riconquistò Palmira. Uno smacco di propaganda evidente per Putin.
Adesso la città è stata nuovamente liberata dallo Stato Islamico, che nel frattempo ha distrutto il proscenio del teatro romano e l’iconico tetrapilo di Palmira, e all’offensiva – oltre alle truppe di Assad e di Mosca – hanno partecipato anche gli Usa, con diversi bombardamenti mirati nell’area. Il fatto che gli Usa colpiscano l’Isis in Siria in accordo con la Russia non è una novità. La differenza col passato è data soprattutto dall’impressione che gli Usa assecondino senza scarti l’agenda russa filo-regime.
Addirittura si vocifera, ma si attendono conferme, di un possibile diktat della Casa Bianca alla Cia per interrompere il sostegno a gruppi guerriglieri siriani che combattono contro Assad. Dopo anni di dichiarazioni contrarie sembra insomma che Washington abbia ora ceduto alla linea russa che non vuole, almeno al momento, la rimozione del dittatore siriano. Se confermato, sarebbe un grosso risultato per Putin.
In secondo luogo è evidente l’influenza russa negli sviluppi a nord di Aleppo. Qui la Turchia e i ribelli da lei sostenuti hanno potuto, grazie al beneplacito del Cremlino, ripulire il confine dall’Isis e – soprattutto – inserire un cuneo tra i territori controllati dai curdi, impedendo così l’unificazione del Rojava (il Kurdistan siriano). Pochi giorni fa, dopo mesi di tentativi, hanno conquistato Al Bab, cittadina in mano all’Isis di grande valore strategico per Ankara in funzione anti-curda (v. cartina 2). Ma proprio qui Mosca, in accordo con Damasco e di nuovo con Washington, ha tracciato una linea che l’operazione di ribelli e Turchia (“Scudo dell’Eufrate”) non deve valicare.
La sacca in mano ai ribelli è infatti stata sigillata prima da un blitz delle forze speciali siriane – Tiger Forces – che, ripulendo una vasta area dalla presenza dell’Isis, hanno bloccato ogni possibile ulteriore avanzata verso sud (v. cartina 2). Poi da un recentissimo accordo tra curdi e regime siriano, in base al quale l’area a ovest di Manbij (cittadina controllata dai curdi) viene ceduta – pare proprio su invito di Mosca – dalle forze curde (Ypg) alle forze lealiste. In questo modo i ribelli sostenuti dalla Turchia, che avrebbero voluto muovere contro Manbij e che già avevano iniziato i preparativi in tal senso (i primi scontri tra ribelli e curdi si protraggono tutt’ora ma sembrano destinati a esaurirsi rapidamente), non potranno attaccare direttamente i curdi senza scontrarsi con gli uomini di Assad (v. cartina 2).
Questo risultato, che già dovrebbe essere garantito dall’impossibilità per Erdogan di ribellarsi a Putin in Siria, è stato ulteriormente sigillato da una mossa degli Usa che a Manbij hanno iniziato a inviare anche proprie forze militari. In questo modo la deterrenza nei confronti di possibili sortite ribelli è totale. Qualsiasi significativa violazione costerebbe ai ribelli, e alla Turchia che li manovra, un prezzo enorme. Lo spazio di manovra di Erdogan in Siria pare insomma esaurito. Ottenuto il “contentino” del cuneo di Al Bab, che garantisce l’interesse strategico turco che non nasca uno Stato curdo unificato al suo confine sud, Ankara sembra ora messa in condizione di non poter manovrare le proprie pedine (ostili ad Assad e ai curdi) sulla scacchiera senza esporsi a rischi sproporzionati rispetto agli obiettivi perseguiti.
Questa astuta iniziativa di Mosca, con sponda americana, dovrebbe dunque non solo proteggere i curdi di Manbij ma accontentare anche Assad, preoccupato dalla possibilità che i ribelli si espandessero al di fuori della “safe zone” creata dall’intervento turco. Inoltre ha anche un risvolto funzionale alla sconfitta dell’Isis, un obiettivo condiviso da Russia e America. Le forze incaricate di liberare Raqqa, la capitale siriana del Califfato, sono infatti le Syrian Democratic Forces (Sdf), un’alleanza di ribelli guidata dai curdi (Ypg). Le recenti scaramucce, e soprattutto la prospettiva di un violento scontro con la Turchia e i ribelli filo-turchi, avevano portato le Sdf a rallentare e poi fermare le operazioni contro Raqqa, che invece nelle settimane precedenti avevano portato a circondare da nord la città (v. cartina 1).
Nel complesso il regime, grazie alla tela tessuta dal Cremlino, sembra ora in posizione ottimale per poter trattare a nord coi ribelli sostenuti dalla Turchia, via Erdogan (condizionato da Putin). A sud può trattare coi ribelli che controllano due sacche, confinanti con la Giordania (v. cartina 1), grazie alla nuova linea degli Usa (che, via Amman, sostenevano tali ribelli) e ai restaurati rapporti con la monarchia giordana. Può quindi concentrare gli sforzi bellici su altre sacche ribelli “minori”, come quella vicino a Damasco (Ghouta) e quella vicino a Homs (v. cartina 1), che infatti sono attualmente sotto attacco (Mosca ha anche proposto “corridoi umanitari” per evacuare i ribelli da Ghouta, secondo il modello di Aleppo).
Assad può poi contare su un inedito, e apparentemente incondizionato, appoggio americano nella guerra contro l’Isis (finora non una priorità per il regime). Può contare su una tregua che pare reggere e anzi rafforzarsi coi curdi. Infine può mantenere un atteggiamento di attendismo o logoramento nei confronti della sacca ribelle più vasta, quella di Idlib (v. cartina 1), dove sono stati riuniti insorti di varie sigle – compresi quelli evacuati da Aleppo – che spesso sono in conflitto tra loro. Pur con tutte le incertezze legate a uno scenario frammentario e fluido come quello siriano, Mosca può per ora rallegrarsi del nuovo atteggiamento americano e intestarsi una qualche razionalizzazione della situazione sul terreno, entrambi elementi che rafforzano la posizione di Damasco.