Sere fa, dal bouquet Sky, come un temibile Joker tiburtino, è schizzato d’improvviso fuori il pluripremiato Lo chiamavano Jeeg Robot, per la regia di Gabriele Mainetti. Mi sono dunque subito accostato alla sua visione come atto dovuto, come dovere di puntigliosa completezza culturale. Perfino poche ore prima, infatti, un’amica attendibile aveva detto che dentro quel film, tra le maschere grottesche di Claudio Santamaria e di Luca Marinelli, “i nuovi Marcelli Mastroianni” (sic), avrei trovato le “energie altrove assenti” del nostro cinema. La rigenerazione del futuro filmico nazionale possibile.
Sono però bastati pochi minuti d’azione per rendermi conto che le avrei infine dato un sincero dolore: cara, perdona la franchezza non meno coatta dell’intera storia che tu magnificavi, però il film, parlo per me, mi fa davvero “cacare”.
La pellicola, in breve, mi è sembrata più insignificante di un volantino da pizzeria del Laurentino, metti, “da Remo e Serse a portar via”. Molto meglio, insomma, ragionando di mitografia del sottosuolo trucido, certi servizi del Tg3 del Lazio, dove la telecamera sfagiola i cartelli della ferrovia Roma-Ostia Lido. Fossero anche quelli di Vitinia e di Acilia-Centro Giano, proprio dove abitava l’indimenticato Franco Califano, per riferire, che so, di una fogna a cielo aperto, un geyser fetido sotto il sole del IX municipio. E ancora, a chi obiettava: “E allora Tarantino?” Ho ribattuto che la coerenza stilistica di quest’ultimo cancella in pochi istanti l’estetica da discarica abusiva a Borgata Fidene di “Jeeg”. Perdonate l’eccessivo dispendio di toponomastica romanesca, romana e romanese, ma l’altro punto critico del film è tutto nella retorica verbale e gestuale del Daje, dell’Anvedi e dello ‘Stocazzo. Troppo, e insieme troppo poco, per creare un filo di frizione drammaturgico originale che non sia invece simile al birignao dei dieci-cento-mille romanzi criminali ibridati tra Gomorra, Nuova Gomorra, Gomorra Scalo, e così via fino a Suburra di sotto. Con le maschere della banda della Magliana, della Maglianella, del Quadraro e del Quadraretto, così prevedibili nel loro sbraco coatto di maniera, pronte a suggerire un filone da Carnevale in versione wrestling, roba da Palacavicchi, il tempio dove perfino la leggendaria Radio Nostalgie teneva i suoi meeting.
Verrà mai il momento in cui l’equivoco della post-modernità che tutto legittima in nome del kitsch, quasi che la cacca certificata sia un giacimento di diamanti inestimabili, e non subcultura da banchi del fumetto usato a Porta Portese 2, trovi il suo ultimo atto?
Intendiamoci, nella sua inconsistenza, nel suo essere un ponte tra Testaccio della compianta Gabriella Ferri e New Mexico di “Kill Bill”, con la dicotomia Cesare Vs. Pompeo, Er Nerchia Vs. Er Cecato, anzi, …‘a Roma-‘a Lazie,‘a Lazie-‘a Roma…, il film non meriterebbe neppure una riflessione sul proprio fragilissimo impianto stilistico, poco più di un poster nibelungico di Frank Frazetta domiciliato però a borgata Finocchio o all’ex Villaggio Ciano oggi solo Trullo; e sicuramente neppure il salvacondotto dell’apoteosi pop, tra Warhol, Marvel, Mazinga Z, Er Canaro, Er Nano della Vasca Navale e gli stessi manga di Jeeg, l’originale. E qui già sento una voce che suggerisce di vederlo con gli occhi disincantati e disincarnati quasi fosse appunto un fumetto, quasi le botte, i colpi di rivoltella, i crac d’ogni osso occipitale frantumato dal protagonista sulle spallette del lungotevere rispondessero agli “Strong!”, “Ciaf!”, “Splash!”, “Sgrunt!” propri degli eroi di carta, pulp fiction; tra classici e acetati.
Verrà mai il momento in cui l’equivoco della post-modernità che tutto legittima in nome del kitsch, quasi che la cacca certificata sia un giacimento di diamanti inestimabili, e non subcultura da banchi del fumetto usato a Porta Portese 2, trovi il suo ultimo atto? Se questo discorso dovesse risultare troppo astruso sarà allora il caso di specificare che “Jeeg” è davvero la soluzione semplificata alla pietra filosofale, al teorema di Talete, alla progressione di Fibonacci con un definitivo “ma ‘sti gran cazzi non ce li metti?”. Soluzione senza dubbio liberatoria al momento del caffè Borghetti all’Olimpico, tuttavia deprimente quando scopri che i nostri attori, gratta gratta, hanno facce da avventori fighetti della trattoria “da Augusto” a piazza de’ Renzi a Trastevere, troppo improbabili come coatti per toccare la cima Coppi della narrazione post-pasoliniana in versione Pokemon. Per loro, Claudio Villa non potrebbe mai intonare quel pezzo gramscianamente scritto “non dal popolo per il popolo” dove “tutto va e le usanze antiche e semplici so’ ricordi che sparischeno e tu Roma mia senza nostalgia segui la modernità”.
Modernità de che?