Tutti assolti, abbiamo scherzato: ma Imperia perde porto e dignità

Le indagini, avviate nel 2012, coinvolgono Francesco Bellavista Caltagirone e Claudio Scajola: accuse rinfocolate dai giornali che si esauriscono in una bolla di sapone, ma lasciano danni morali ed economici

Lunedì scorso la Corte d’appello di Torino ha confermato l’assoluzione dell’imprenditore romano Francesco Bellavista Caltagirone nel processo sulle presunte irregolarità nella costruzione del porto turistico di Imperia (i pm avevano chiesto una condanna a sei anni di reclusione). Un lungo calvario mediatico-giudiziario – esempio emblematico di come una cattiva giustizia possa determinare danni non solo sulla vita delle persone, ma sull’economia di un’intera area del Paese – che merita a questo punto di essere raccontato in tutti i suoi incredibili risvolti.

C’era chi ci credeva alla costruzione del grande porto turistico di Imperia, un progetto che avrebbe cambiato il volto della città che si affaccia sul golfo ligure attraverso millequattrocento posti yacht, darsene, alberghi extralusso, centro congressi, residenze, piste ciclabili, infrastrutture commerciali.

Un’apertura al turismo internazionale di livello, quello che – usando le parole di Flavio Briatore – non vuole masserie, casette e hotel a due o tre stelle, ma “lusso, porti, servizi impeccabili”. Ecco, al porto turistico di Imperia, che sarebbe dovuto diventare il più grande del Mediterraneo, ci credevano due persone in particolare: Claudio Scajola, che da sindaco della città ligure nel 1990 posò la prima pietra del lungo procedimento amministrativo che si sarebbe concluso nel 2006 con l’inizio dei lavori nel porto, e Francesco Bellavista Caltagirone, il costruttore romano che con la sua Acqua Marcia aveva ottenuto l’affidamento dei lavori, promettendo un investimento di circa 140 milioni di euro. Il tritacarne mediatico-giudiziario li avrebbe travolti entrambi nel 2010, ponendo il porto – costruito per metà – in uno stallo che si protrae ancora oggi.

Nell’ottobre di sei anni fa, infatti, Scajola – divenuto nel frattempo ministro delle Attività produttive – e Caltagirone scoprono leggendo le pagine dei giornali di essere indagati dalla procura di Imperia per associazione a delinquere in relazione alla costruzione del porto turistico, con l’accusa di aver aggirato le norme sugli appalti pubblici. Secondo la procura, Scajola si sarebbe attivato per far sì che Acquamare (partecipata di Acqua Marcia) ottenesse l’aggiudicazione dei lavori senza passare da alcuna gara pubblica. Gara che, però, secondo Acquamare in realtà non era necessaria, in quanto la società alla quale il comune di Imperia aveva affidato la concessione demaniale del porto, la Porto d’Imperia S.p.a., era prevalentemente a capitale privato (ne facevano parte, con quote di un terzo ciascuno, il Comune, Acquamare e una cordata di imprenditori). Ma l’iniziativa dei procuratori di Imperia conquista le prime pagine dei giornali, anche sul piano nazionale in virtù del coinvolgimento di Scajola, utilizzato dai magistrati a mo’ di specchietto per le allodole.

Il colpo di scena giunge il 5 marzo del 2012, quando la procura apre un nuovo filone di indagine per Caltagirone con l’accusa di truffa aggravata nei confronti dello stato per la presunta lievitazione dei costi di realizzazione del porto. Così, quella mattina, dopo ben sei mesi dalla richiesta del pubblico ministero Maria Antonia Di Lazzaro, e nonostante la dubbia esistenza di un pericolo di inquinamento delle prove (Caltagirone non rivestiva più alcuna carica in Acquamare), il giudice delle indagini preliminari di Imperia autorizza l’arresto per Caltagirone. Le forze dell’ordine, anziché fermarlo a casa, arrestano l’imprenditore sulle scale del comune, mentre aspetta di essere ricevuto dal sindaco della città, davanti a giornalisti, fotografi e operatori televisivi. Non solo: il pm vieta a Caltagirone ogni colloquio in carcere per cinque giorni, negandogli anche la possibilità di conferire con gli avvocati. A 73 anni e con problemi di salute, Caltagirone si ritrova dietro le sbarre del carcere di Imperia.

Dopo 45 giorni di detenzione, durante i quali perde ventidue chili, il costruttore ottiene gli arresti domiciliari a Roma per motivi di salute. Il 18 luglio, però, viene di nuovo arrestato perché Acquamare, in cui Caltagirone non ha più incarichi, ha venduto un posto barca e attivato un arbitrato nei confronti del Porto d’Imperia, cosa che secondo il gip sarebbe riconducibile allo stesso Caltagirone e aggraverebbe le esigenze cautelari.

Mentre termina gli adempimenti in commissariato, in attesa di essere trasferito nel carcere di Regina Coeli, Caltagirone si sente male e viene ricoverato in ospedale. La detenzione al Regina Coeli a quel punto non sembra più compatibile con le sue condizioni di salute, così Caltagirone viene trasferito di nuovo nel carcere di Imperia. Dopo quasi cinque mesi (nove mesi di custodia cautelare in tutto), l’imprenditore viene scarcerato.

Il calvario che Caltagirone è stato costretto a vivere si rivelerà del tutto ingiustificato. Il primo filone dell’inchiesta, quello sull’associazione a delinquere, non riesce addirittura ad arrivare in dibattimento: il 7 gennaio del 2013, dopo tre anni di indagini, accertamenti bancari e centinaia di intercettazioni, il gip di Imperia archivia le posizioni dell’imprenditore romano e di Scajola, che nel frattempo era stato ritratto dai media come “il dominus” incontrastato della Liguria, con una sua losca “rete di potere”.

È il preludio di quanto accadrà il 7 novembre 2014, quando l’inchiesta avviata dalla procura di Imperia – il cui giudizio intanto era stato trasferito a Torino per ragioni di incompatibilità – finirà in un colossale flop nel giudizio di primo grado: Caltagirone viene assolto dai reati di truffa aggravata e abuso d’ufficio “perché il fatto non sussiste” (i pm avevano chiesto la condanna a otto anni di carcere), assieme ad altri nove imputati, mentre sono solo due le persone condannate per reati minori. Tutto il castello accusatorio messo in piedi dalla procura crolla. Lunedì scorso, la conferma dell’assoluta insussistenza delle accuse nel giudizio di appello.

Restano a terra, insieme alla polvere, sofferenze economiche, personali, umane. L’azienda di Caltagirone, lasciato per mesi a marcire in carcere a 73 anni neanche fosse Totò Riina, è fallita. Il blocco dei lavori di costruzione del porto ha innescato un groviglio di cause civili da parte di coloro che già avevano proceduto all’acquisto di posti barche o strutture legate al progetto e che poi non sono mai venuti in possesso dei beni acquistati. Il comune ha revocato la concessione demaniale alla Porto d’Imperia S.p.a., dando vita a una serie di ricorsi sulla quale è stato chiamato a esprimersi il Consiglio di Stato. L’impatto sul piano dell’immagine pubblica e dell’attrazione degli investimenti dall’estero è stato devastante. Si può chiamare giustizia?

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