Uomini e Topo, due chiacchiere (e dei prosecchi) con Tito Faraci

Tito Faraci è uno degli sceneggiatori italiani più importanti degli ultimi anni, ha scritto storie per Dylan Dog, Tex, Martin Mystère, Zagor, Lupo Alberto, Diabolik, Nick Raider, Magico Vento, ma sopratutto Topolino. È a lui che ha dedicato il libro Uomini e topo, edito da Add

La birra è un alcolico prepotente, per varie ragioni. Intanto perché devi iniziare per forza con lei, che ha un basso grado alcolico, e poi crescere progressivamente: la famigerata birra spaccagambe di fine serata ormai fa troppo male. Poi perché riempie, gonfia, prende spazio nel tuo stomaco e si allarga sgomitando, cercando di non far passare nient’altro. E poi perché è buona e costa poco, la danno dappertutto, può essere in bottiglia, in lattina o alla spina ed è, al pari del calcio, con il quale è spesso accostata, uno dei collanti sociali più appiccicosi d’Italia e del mondo.

Anche i libri sono degli oggetti prepotenti: ti chiedono assoluta concentrazione, hanno un volume, dunque occupano spazio, sono complicati e pretendono ragionamenti e collaborazioni da parte del lettore. In più, si sentono chissà chi, e la loro letterarietà sconfina in tutti i campi limitrofi, rendendoli cultura “superiore”, al contrario delle ragazzate come i videogiochi o i fumetti.

Anche Tito Faraci è un autore prepotente. Ha scritto di tutto nei fumetti (Topolino, Tex, Diabolik, Dylan Dog, Brad Barron, Lupo Alberto, Spider Man e il resto del cucuzzaro), nei romanzi e nelle cose ibride che non si capiscono bene, come quella nuova con Sio.

Per combattere tutte queste prepotenze, Molte birre con…, l’unica rubrica con il titolo intercambiabile, dopo aver parlato di editoria americana con Giulio D’Antona, di criminalità organizzata con Simone Sarasso, di sciabattamenti del Novecento con Marco Rossari, di agenzie e riviste con Pastrengo e di racconti e Messico con Alessandro Raveggi, oggi diventa Molti prosecchi con… Tito Faraci, e proprio con lui berremo un particolare tipo di prosecco che si avvicina molto alla birra, come consistenza, opacità e torbidezza: il Col Fòndo,consigliatoci dagli amici de Il Secco, un posto bellissimo a Milano, sui Navigli, dove ogni tanto bisognerebbe proprio andarci, che si sta bene e si beve solo grande prosecco italiano.

Tito Faraci ha scritto un libro per la collana Incendi di Add Editore, il libro si intitola felicemente Mickey. Uomini e Topo e racconta della vita e della passione di Tito verso Topolino, personaggio, e Topolino, giornale.

Come sempre, siamo stati immortalati da Alberto Cocchi, ormai un’autorità riconosciuta nel cogliere i primi accenni di alcolismo che increspano i lineamenti degli autori che intervistiamo.

Primo prosecco

La cosa più importante di questo libro, e di tutta la collana Incendi di Add, è che tu non racconti Topolino, piuttosto racconti Topolino attraverso di te. E però, nel farlo, ci sono state cose legate a lui che sentivi l’urgenza di mettere in chiaro, perché sembra che un certo tipo di percezione popolare non abbia capito qualcosa di importante. Che cos’è che le persone non hanno capito? E perché?

Ho raccontato Topolino attraverso di me e ho raccontato me attraverso Topolino, è un po’ questo il gioco. Sai come funzionano questi libri? È come se tu ti mettessi al bar, come siamo noi adesso, con gli occhi alla stessa altezza del tuo lettore – perché la condiscendenza è un peccato mortale che andrebbe punito – e il tuo interlocutore ti dice: oh, a me Topolino sta sul cazzo perché è un perfettino primo della classe, e io di solito non gli spiego tutte queste cose, gli dico di andare a cagare. Però, mettiamo che quella sera sono in buona e…

Scusami, ma perché dovrebbero andare a cagare? Se la pensano così, significa che si sono fatti un’idea a partire da quello che hanno letto.

Si sono fatti un pregiudizio che deriva da troppe storie sbagliate che hanno popolato il Topolino giornale tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Io ho una stima colossale per gli autori Disney italiani, ma non sono così cieco da pensare che tutto sia venuto sempre bene. C’è stato un periodo in cui sono uscite troppe storie “sbagliate”, con Topolino che risolve sempre tutto al volo, indovinando il colpevole con un guizzo di genio. Scrivere gialli ben strutturati è faticoso, e c’è stata molta pigrizia nel lavorare su questo personaggio, cosa che ha condizionato una generazione di lettori. Il problema è: quando hai due personaggi e devi contrapporli, non vedi le loro similitudini ma, al contrario, cerchi di sottolinearne il più possibile le differenze. Come dire Beatles e Rolling Stones: nessuno ti dice mai quanto possono assomigliarsi su certe cose, tutti insistono sulla loro diversità.

Topolino nasce alla fine degli anni venti, cresce negli anni trenta come un tizio che se ci giravi la sera insieme, la mattina ti risvegliavi in galera. Era attaccabrighe, anarchico, ha iniziato la sua vita in un’America rurale assurda in cui ne combinava di tutti i colori. Era un cazzone, ecco.

Però non è colpa della gente, è colpa degli autori. Non devi mandare a cagare la gente!

La gente la mando a cagare perché sono antipatico.

[Segue un alterco, bicchieri che volano, poi un brindisi]

Immaginati questo dialogo, che mi è successo veramente.

  • «Ehi, ma tu che lavori a Topolino, perché non escono mai storie di Eta Beta?»
  • «Guarda che ne esce una al mese».
  • «Eh, io mica lo so, sono dieci anni che non lo leggo».

Ecco, è difficile non perdere la pazienza, in questi casi. Topolino è uno di quei fumetti popolari che tutti sono convinti di conoscere profondamente, ma poi si scopre che lo leggevano solo da bambini. Nessuno si prende mai la briga di informarsi davvero, e io ho usato questo libro per spiegare bene le cose, e la mia passione.

Secondo prosecco

Topolino è uno dei pochi oggetti culturali con una penetrazione così profonda nell’infanzia, quindi bisogna fare i conti con la maggioranza delle persone che si sono formate attraverso di lui e poi l’hanno abbandonato con l’età. Lavorare con Topolino significa sentire un senso di responsabilità verso la formazione dei giovani?

Intanto, Topolino è letto anche da tantissimi adulti. Comunque, io odio le storie edificanti, non le racconterò mai. Poi, quando scrivo per bambini, io scrivo anche per bambini, allargo il mio pubblico. Il senso di responsabilità che sento è quello di scrivere storie interessanti e divertenti. Il divertimento è una cosa molto vicina a…

[Entra Silvia Ziche, Tito inizia a dire cose molto più serie e intelligenti]

Dicevo, se parli con uno psicologo, lui ti dice che il divertimento, inteso come svago, è quando esci dalla tua vita quotidiana e fai un passo a lato: se racconto storie divertenti le rendo più interessanti, con aspetti e angolazioni nuove e inedite. Io faccio divertire il mio lettore perché, per un attimo, lo porto apparentemente lontano, e poi lo riporto vicino. Non è importante avere solo il senso del fantastico ma anche poter raccontare la quotidianità. Perché è bella la storia di Topolino che prende un’astronave e scopre nuovi mondi, ma è bello anche raccontare quanto sia difficile litigare con i propri amici, o mantenere un rapporto di coppia, o come tirare a campare a fine mese.

C’è da dire una cosa del fumetto: gli effetti speciali sono gratis. Raccontare Topolino che va a fare la spesa o che va sulla Luna costa uguale. Quindi uno dice: visto che costa uguale, parlo della Luna. È un ragionamento sensato?

Devo darti una brutta notizia: costa di più raccontare Topolino che litiga con Pippo, perché ti costa di più scriverlo. Fare la storia avventurosa è facile, e il disegnatore si diverte, ma costruire una storia sulla vita comune delle persone ha un costo a livello narrativo molto più difficile. La scrittura della commedia è molto complicata. Nel fumetto spesso si pesca con le bombe: dai, arriva Godzilla e spacca tutto! Invece raccontare il tuo mondo con quei personaggi è un’operazione complessa e faticosa, ma importante. Bisogna avere il senso del non fantastico.

Terzo prosecco

Mi sembra che le cose che fai e che hai fatto su Topolino funzionino come esplosioni: tu prendevi personaggi minori, penso a Manetta, e li facevi esplodere, dandogli lo spazio che non avevano. È una poetica programmatica del tuo essere fumettista?

Gli strumenti che ha in mano un narratore sono sostanzialmente tre: i personaggi, la trama e la situazione. La situazione è sempre molto interessante, quando è buona viene tutto meglio; la trama è come fai muovere i personaggi, cosa fai con loro, e i personaggi sono quelli che hai e devi usarli al meglio. Quando hai trovato una buona situazione, riesci sempre a portare a termine la storia.

Se guardi un oggetto da molto vicino, di fronte al tuo naso, va tutto fuori fuoco, non vedi nulla, perché ci sei troppo dentro. Per questo, all’inizio della mia carriera con Topolino ho fatto molti passi indietro, ho visto da lontano e ho visto cose che agli altri sfuggivano. Per esempio, in tantissime storie di Topolino c’era l’ispettore Manetta, non faceva nulla di particolare ma era sempre lì, e nessuno lo vedeva più, veniva sceneggiato in automatico. Quindi ho pensato: diamogli spazio. Ma il passo più indietro che ho fatto nella mia carriera è stato rendermi conto che Topolino e Gambadilegno nascono insieme in Steamboat Willie del 1928. Hanno un legame indissolubile, hanno bisogno l’uno dell’altro. Non possono essere amici, certo, ma come fanno a essere nemici?

Topolino, mi pare, ha una funzione importante di rielaborazione della realtà. Ha senso scrivere una sua storia in cui Qui, Quo e Qua si mandano una lettera e non un whattsapp?

Ma no, questa cosa mi fa troppo incazzare.

Bevi, che ti passa.

È una cosa su cui cerco di picchiare molto. Se uno riceve una telefonata, risponde al cellulare. Sto anche facendo una piccola campagna per abolire la parola “cellulare”. Chi la usa più? Si dice telefono, il telefono è questo [indica con livore il suo iPhone], mica quello fisso.

Una delle cose che il fumetto disneyano ha nel suo DNA è che permette di usare la realtà che ci circonda come materiale narrativo. Topolino, nelle strisce dell’epoca, era l’americano medio che attraversava la grande depressione, le guerre, gli anni cinquanta, eccetera. Per questo io incito me stesso e gli altri a fare sempre storie ambientate oggi e in questo momento.

Facendo le presentazioni del tuo libro, qual è stata la reazione della gente? Qual è stata la risposta del pubblico a un’operazione come questa, fatta attorno a Topolino?

Sono tutti molto sorpresi, interessati; questo libro poi è anche un po’ una spina nel fianco a un certo tipo di pubblico di Topolino, molto diffuso ma anche molto pernicioso, che a trent’anni rimpiange i magnifici anni cinquanta, cosa che non ha senso. La lezione dei grandi maestri del passato era guardarsi attorno e usare quello che c’è. Barks ti direbbe: non hai capito un cazzo se provi a scrivere storie degli anni cinquanta con gli stimoli narrativi di allora.

Scarpa guardava i film di Hitchcock, io le serie tv. Ogni momento storico ha una sua forma narrativa di raccontare. Rimpiangere il passato è un’operazione sterile e fa molto male ai personaggi. Le cose passatiste mi mettono depressione.

Quarto prosecco

C’è da dire però che il canone disneyano mette alcuni paletti, certi limiti da rispettare come l’alcol, la violenza, le armi da fuoco, i letti matrimoniali e, dunque, le discendenze dirette, un certo tipo di cibi; mi sembra che questo vada un po’ contro ciò che hai appena detto, no?

Guarda, l’altro giorno qualcuno ha scritto un pezzo su un blog, non mi ricordo più quale, e naturalmente io l’ho insultato simpaticamente.

In che modo l’hai insultato?

Con allegria. Cioè, la mia allegria. La sua probabilmente no. Comunque, questo diceva cose tipo: non è possibile, non si possono fare storie di Topolino in cui si vede un bagno! E io gli ho detto: il bagno potrebbe essere molto bello, e poi il lettore potrebbe dire: ah guarda, anche loro fanno la cacca, chissà come. Quello che voglio dire è: ci sono cose vietate che non si fanno, ed è vero, ma nei fumetti disneyani, porca miseria, raccontiamo temi davvero colossali: l’amicizia, l’amore, la giustizia, i sentimenti e le loro negazioni e tanto altro.

Certo, non si racconta la morte, ma si può raccontare l’assenza, la perdita. Perché, vedi, nel tipo di narrazione attuale, ormai la morte è una cosa molto buttata via. Tu vedi una sparatoria in cui muoiono quaranta persone ma non provi nulla. A quel punto è meglio evocarla attraverso un giro più complesso, raccontando il senso della perdita. L’evocazione è molto più potente del mostrare le cose.

C’è una vulgata che confonde gli autori unici con gli autori completi, e cioè che considera “completo” chi sceneggia e disegna allo stesso tempo, come se chi fa solo una delle due cose sia un autore a metà, monco. In più c’è anche una percezione diffusa che sia più facile scrivere che disegnare.

Questa cosa mi sta proprio sulle balle. Quando uno non conosce il mio lavoro, pensa che faccia tutto il disegnatore e che lo sceneggiatore scriva solo i dialoghi o poco altro. Poi io racconto come funziona davvero e l’interlocutore sbaglia di nuovo, convincendosi che faccia tutto lo sceneggiatore. C’è un paragone con il cinema che funziona: lo sceneggiatore è tutta la troupe, compreso il regista; il disegnatore è tutto il cast. La quantità di scelte che fa un disegnatore è mostruosa, anche quando lo sceneggiatore è molto dettagliato. Il disegnatore fa scelte anche narrative, non solo stilistiche.

Ultimo prosecco

Ultima cosa: dimmi una figata che c’è nel tuo libro e che non sa nessuno.

Una volta ho rubato il cellulare di Casty, ci ho guardato dentro e ho trovato il numero di telefono di Topolino.

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