Numerosi indicatori mostrano che, dopo l’attacco alla base siriana di Al-Shayrat, gli Stati Uniti sono convinti di essersi portati in una posizione di forza nelle trattative con la Russia su questo scacchiere.
Il consigliere per la sicurezza nazionale generale H.R. McMaster ha dichiarato che “questa per il governo russo rappresenta una grande opportunità per riconsiderare quello che sta facendo”. L’ambasciatore all’ONU Nikki Haley ha rilanciato le sue già bellicose dichiarazioni affermando che “questo serve per mandare alla Russia un messaggio: sai una cosa, non ti permetteremo più di coprire ancora il regime [Siriano]”. E ancora: “Assad credeva di farla ancora franca perché aveva la Russia a guardarle le spalle, ma tutto questo è cambiato la scorsa notte”.
Il pregiudizio su cui si basano queste affermazioni è molto semplice: l’amministrazione USA è convinta che i 59 missili cruise siano stati sufficienti per ribaltare in una sola notte il fatto che Russia, Siria e l’alleato Iran hanno in mano tutte le carte del conflitto siriano mentre gli Stati Uniti non hanno mai avuto una strategia comprensibile fin dall’inizio degli scontri.
L’era delle fake news chimiche del XXI secolo è stata inaugurata proprio da Washington quando presentò le prove che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa in violazione alla risoluzione 1441 dell’ONU. Ricordate il Segretario di Stato Colin Powell che dal seggio dell’Onu agita una fialetta contenente, a suo dire, un veleno militare iracheno? Nonostante i dubbi da tutto il mondo, il 20 marzo 2003 gli americani lanciano la Seconda Guerra del Golfo
Il primo elemento che occorrerebbe chiarire è quello che sta alla base di questa nuova fase del conflitto: esiste la certezza che al-Assad abbia veramente lanciato armi chimiche su Khan Sheikhoun? I siriani ovviamente negano, i russi giurano di no sostenendo che gli aerei siriani hanno colpito un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli, gli americani sono certi di sì. Di fatto, noi occidentali membri della NATO saremmo più portati a credere all’alleato Trump, se non ci fossero diversi vergognosi precedenti.
L’era delle fake news chimiche del XXI secolo è stata inaugurata proprio da Washington quando presentò le prove che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa in violazione alla risoluzione 1441 dell’ONU. Ricordate il Segretario di Stato Colin Powell che dal seggio dell’Onu agita una fialetta contenente, a suo dire, un veleno militare iracheno? Nonostante i dubbi da tutto il mondo, il 20 marzo 2003 gli americani lanciano la Seconda Guerra del Golfo. Dopo più di tre anni di conflitto e l’impiccagione di Saddam, di armi di distruzione di massa non ne viene trovata nemmeno l’ombra. È costretta ad ammetterlo la stessa CIA in un rapporto del 2004 dove presenta l’esito negativo delle ricerche condotte da 1200 ispettori. Tutte le inchieste successive hanno confermato lo stesso risultato. L’ultimo esito negativo è arrivato dalla commissione inglese guidata da Sir John Chilcot che il 6 luglio 2016 ha concluso che non esistevano né armi di distruzione di massa né motivazioni sufficienti per attaccare l’Iraq.
Le false notizie usate come pretesto di intervento sono proseguite con le atrocità commesse da Gheddafi nel 2011, in particolare i diecimila morti e cinquantamila feriti provocati da bombardamenti su Tripoli e Bengasi riferiti dalla fonte autorevole Sayed Al Shanuka, membro libico della Corte Penale Internazionale. Francesi e americani attaccano, aiutano i ribelli, rovesciano la Jamahiriya, Gheddafi viene ucciso senza processo e poi si scopre che Sayed Al Shanuka era un mitomane senza alcun legame con la Corte Penale Internazionale.
La terza notizia costruita ad arte come pretesto per un intervento sembra, invece, sia stata usata proprio sullo scacchiere siriano: il 21 agosto 2013 nel quartiere sud-est di Damasco in mano ai ribelli, centinaia – o forse migliaia – di civili muoiono per un bombardamento con agenti nervini. Tutto il mondo punta il dito su al-Assad. A differenza di Saddam e di Gheddafi, stavolta al-Assad se la cava per un soffio grazie al freno posto dalla Russia. La Siria firma la convenzione sulle armi chimiche e distrugge il proprio arsenale sotto gli occhi degli osservatori dell’ONU. Un anno dopo il giornalista e premio Pulitzer Seymour M. Hersh conclude una dettagliata inchiesta in cui sostiene che furono proprio i ribelli di al-Quaeda e non al-Assad a usare il micidiale gas sarin sui civili.
Alcuni contestano quest’ultima ricostruzione, ma uno studio del Massachusetts Institute of Technology la conferma. Quello che è certo, è che non si saprà chi ha scatenato l’attacco a Khan Sheikhoun del 4 aprile 2017 finché la commissione investigativa già richiesta all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU – e la Russia fra i primi – non avrà concluso le indagini.
Se, almeno stavolta, la tesi americana risulterà confermata, il più furioso contro al-Assad non sarà Trump ma Putin stesso. Si dimostrerebbe che al-Assad ha fatto fessi sia Obama che Putin quando entrambi certificarono l’avvenuta distruzione dell’arsenale chimico siriano. Andrebbe a pezzi il prestigio guadagnato da Mosca per aver scongiurato una drammatica escalation nel 2013 così come la rete di accordi che i mediatori cercano di tessere fra le due superpotenze dopo la fine dell’era obamiana. Accordi all’interno dei quali la questione siriana gioca un ruolo tutt’altro che secondario.
L’amministrazione Trump non ha esitato a forzare la mano per bocca dello stesso McMaster, che ha provocato direttamente la Russia: “Se avevate consiglieri militari nella base di Al-Shayrat, come è potuto accadere che non vi siate accorti che l’aeronautica siriana stava preparando una strage di massa con armi chimiche?”.
Le poco velate accuse di complicità lanciate dalla Haley alla Russia hanno poco senso, perché Mosca non avrebbe nulla da guadagnare e molto prestigio e credibilità internazionale da perdere se si scoprisse che la Siria ha effettivamente usato armi chimiche, tanto più con l’appoggio russo o (sarebbe pure peggio) senza che questi se ne accorgessero
Ma in tempi non sospetti – nei primi mesi del 2016 – i russi avevano avvisato che il loro personale e i loro mezzi si erano ritirati dalla base di Al-Shayrat proprio sulla base del memorandum comune stipulato fra USA e Russia per evitare incidenti sul territorio siriano – ora diventato carta straccia per il bombardamento americano dei giorni scorsi.
Inoltre, il bottino del raid americano sembra essere stato la distruzione di sei bombardieri SU-22 (annata 1975) e tre caccia MIG-23 (annata 1970), complessivamente di un valore commerciale inferiore a 59 missili Tomahawk. Ma, soprattutto, non risulta essere stato colpito nessun deposito di bombe, contenitori di gas nervini o altre infrastrutture connesse con la guerra chimica. A conferma di questo, l’aeroporto ha ripreso le operazioni di volo solo poche ore dopo.
Va infine notato che, nei pochi minuti intercorsi fra il preavviso dato Washington a Mosca e l’inizio del bombardamento, i russi non hanno fatto intervenire le batterie di missili antimissile S-300 e S-400 posizionate nel quadrante di Homs. Non è dato sapere se perché queste ultime non erano operative o posizionate in modo inadeguato per abbattere i Tomahawk oppure se per scelta diretta del Cremlino allo scopo di non alzare ulteriormente il livello dello scontro.
Le poco velate accuse di complicità lanciate dalla Haley alla Russia hanno poco senso, perché Mosca non avrebbe nulla da guadagnare e molto prestigio e credibilità internazionale da perdere se si scoprisse che la Siria ha effettivamente usato armi chimiche, tanto più con l’appoggio russo o (sarebbe pure peggio) senza che questi se ne accorgessero.
In conclusione, non è chiaro quale politica stia perseguendo l’amministrazione Trump verso la Russia e in particolare come voglia risolvere il conflitto siriano. L’impressione di molti osservatori è che il nuovo presidente stia muovendosi sulla base dell’impulso – o del consigliere – del momento.
Quello che invece è certo è che negli ultimi anni, ogni volta che gli Stati Uniti hanno alzato il livello dello scontro per togliere di mezzo un dittatore scomodo, hanno costruito false notizie allo scopo di scatenare lo sdegno mondiale e giustificare un intervento ma, al contempo, non sono stati capaci di ricostruire un tessuto statuale e una autorità accettata dalla maggior parte della popolazione coinvolta. E tutte le volte il terrorismo jihadista ha approfittato del vuoto di potere per conquistare il territorio. E’ successo in Iraq e in Libia. Stava per capitare in Siria nel 2013 e rischia di succedere anche oggi.