L’articolo che pubblichiamo è stato originariamente pubblicato sul numero di aprile della rivista Mondoperaio, intitolata “Il popolo e l’algoritmo” e dedicata, per l’appunto, al dibattito tra popolarismo e populismo nell’era della comunicazione digitale. Nel numero in questione sono presenti contributi, fra gli altri, di Andrea Orlando, Maurizio Martina, Luciano Violante e Giorgio Vittadini
Grazie al digitale la comunicazione ha subito una vera e propria rivoluzione copernicana. Se prima al centro c’erano la stampa, la radio e in tempi più recenti, soprattutto la tv, ora vi è anche la rete. Tra i mezzi tradizionali in veste rinnovata e tra quelli totalmente nuovi, vi è un rapporto continuo e osmotico. Chi è in cerca di notizie si riscopre utente ed è messo sia nella condizione di poter accedere a fonti di informazione teoricamente inesauribili, sia di poter interagire con tutti senza tener conto di ruoli e distanze. Sembrerebbe un quadro idilliaco ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Con il tempo la rete ha svelato una serie di dinamiche controverse. Alcune erano sconosciute, come il fenomeno dei troll, delle echo chamber o delle “filter bubble” spiegate da Eli Pariser, altre apparentemente imprevedibili come il meccanismo di funzionamento degli algoritmi. Altre invece, pur essendo connaturate nell’uomo, in versione digitale appaiono – se possibile – amplificate nella loro portata, basti pensare all’omofilia nei rapporti interpersonali, alla polarizzazione o al pregiudizio della conferma. Ciascuno di noi dunque si illude di essere libero nella navigazione ma rischia di trovarsi rinchiuso in camere dell’eco frequentate da chi la pensa sostanzialmente allo stesso modo e finisce con l’avere idee ancora più estreme di quelle maturate all’inizio, convincendosi ulteriormente della propria opinione e rifiutando quella altrui con superficialità. Poi, magari se interagisce con chi porta una visione differente del reale, rischia di alimentare l’hate speech.
In rete inoltre vi è un’elevata possibilità che contenuti esatti e di qualità viaggino con la stessa velocità di altri falsi, erronei o incompleti raggiungendo una medesima – se non maggiore – diffusione capillare mediante il meccanismo del clickbaiting e della selezione operata dagli algoritmi. Le piattaforme digitali si sono poste il problema già da un po’ e hanno rivelato una natura che va oltre il social networking e che probabilmente non era contemplata all’inizio, ovvero quella di carattere editoriale. Se danno notizie devono farlo ponendo un target di qualità, ma basterà il fact checking a contrastare l’inesorabile e celere click baiting? Nel frattempo chi naviga è confuso e resta disorientato dalla volatilità dei fatti, sempre più spesso degradati al livello di mera opinione. Ecco spiegata la diffusione sempre maggiore del termine post-verità, usato per inquadrare la particolare fase storica attuale.
Pregiudizio e disinformazione sono direttamente correlati al postmodernismo, all’idea che esistano interpretazioni dei fatti più che dati oggettivi. Questo ragionamento se viene portato al limite, conduce a una sorta di opinabilità estrema su tutto. Davvero non esistono più prospettive e certezze? Davvero la verità non esiste più, se non nella capacità di ciascuno di costruirsene una propria, su misura, senza preoccuparsi minimamente della sua corrispondenza a presupposti oggettivamente validi?
La colpa non è della rete ma quest’ultima rende il fenomeno palese. Ciascuno di noi infatti inconsapevolmente si trova ad essere assorbito dalle dinamiche ricordate in precedenza. Il meccanismo degli algoritmi ad esempio, inevitabilmente condiziona le ricerche in rete, quello del click baiting amplifica la diffusione di determinati contenuti. Aggiungiamo tutto il resto e vediamo come è facile ipotizzare che diffidenza, pregiudizio e disinformazione possano essere incentivati.
Siamo raggiunti quotidianamente da nozioni continue, spesso ce ne serviamo per arrivare a delle conclusioni e per formulare valutazioni, le quali potrebbero tuttavia essere viziate, parziali o inesatte. Avere più informazione non equivale ad avere più conoscenza e sebbene in teoria siamo più istruiti e aggiornati rispetto alle generazioni precedenti, vanifichiamo di frequente la possibilità di essere soggetti attivi realmente consapevoli. In breve, possiamo incappare in quella che possiamo definire una tautologia 2.0. Anzi, in un vero e proprio diallelo ( διάλληλος), ovvero in quella specie di «ragionamento reciproco», in cui premesse e conseguenze si condizionano reciprocamente. In altre parole, un circolo vizioso in cui ci si trova quando si parte da alcune premesse per spiegare delle conseguenze, mentre in realtà andrebbero dimostrate separatamente sia le une che le altre. Quando da un’ipotesi si deve giungere a una tesi, sono necessarie essenzialmente due condizioni, la prima è la disponibilità di nozioni che non possano essere messe in discussione, la seconda è l’esistenza di regole che ci permettano di ragionare in maniera corretta. Ebbene sembriamo deboli sotto entrambi gli aspetti. Sul primo punto, come abbiamo visto, il paradigma postmoderno induce a mettere in dubbio qualsiasi cosa e a far assurgere a fatti quelle che sono mere opinioni coerentemente alla post-verità. Al contrario invece dobbiamo poter contare su punti fermi e premesse inconfutabili. Addirittura Barack Obama a Chicago, nel suo ultimo discorso da Presidente sentì la necessità di affermare che abbiamo bisogno di basi di fatti comuni– egli citava scienza e ragione- e che queste ultime non possono essere messe in discussione.
Oggi invece molti sembrano essere diventati insofferenti alla verità e fin troppo vulnerabili allo scetticismo più impertinente. E qui giungiamo al secondo punto di cui parlavo in precedenza. Cosa trasforma un utente passivo in un soggetto attivo? Cosa rende l’individuo un cittadino realmente consapevole? Una regola che gli permetta, partendo dalle informazioni, di giungere a fare le proprie personali valutazioni. Sempre più spesso infatti si ha a che fare con dati da interpretare, con fatti che vanno capiti e approfonditi. L’utente non può essere lasciato solo in questo percorso dove a ogni angolo si nascondono le trappole in precedenza. Il pregiudizio e l’eccesso di informazioni possono essere gestiti ma è necessaria una regola, un precetto che consenta, partendo dalle informazioni di cui disponiamo, di arrivare a conclusioni corrette e non parziali. In altre parole, dobbiamo reimpostare un metodo scientifico-dialettico nella conoscenza e nella comunicazione.
Ciascuno di noi si illude di essere libero nella navigazione ma rischia di trovarsi rinchiuso in camere dell’eco frequentate da chi la pensa sostanzialmente allo stesso modo e finisce con l’avere idee ancora più estreme di quelle maturate all’inizio, convincendosi ulteriormente della propria opinione e rifiutando quella altrui con superficialità
Ognuno di noi legge la realtà e la interpreta. Viene naturale e in maniera più o meno inconsapevole, ciascuno condiziona anche altri nelle proprie interazioni quotidiane con colleghi di lavoro, parenti, conoscenti e contatti sui social network. Non dovrebbe dunque essere messo nella condizione di osservare il mondo nella maniera più completa e meno inesatta possibile? Ecco quindi che mai come oggi, nell’epoca dell’informazione e della comunicazione disintermediata, la lettura del reale va al contrario re-intermediata, con i corpi intermedi a fare la loro parte perché in grado di risvegliare l’homo sapiens presente in ciascuno di noi. È necessario in generale re-intermediare e ricucire quelle parti apparentemente distanti della società che sembrano non poter e voler più interagire. Questo ambizioso scopo può essere raggiunto solo dalla politica. Le élite politiche tradizionali ma in generale i partiti tradizionali spesso vengono stigmatizzati e criticati. Più si appellano ai fatti, più sembrano sortire paradossalmente l’effetto opposto. Il primo passo è ricreare un tessuto di fiducia, disporre di punti di riferimento. Prima uno di questi era in partito, quasi inossidabile nel suo ruolo.
Oggi invece lo scetticismo ha intaccato anche il desiderio di partecipazione e coinvolgimento. Alcuni hanno addirittura parlato di crisi dei partiti, asserendo che si tratterebbe di un modello destinato al declino. Io non ne sono affatto convinto. Se tra i tanti fattori, la tecnologia, la globalizzazione e i suoi effetti hanno determinato una crisi di questo istituto, non lo si deve mettere in soffitta ma lo si deve ripensare con ancora più determinazione. In altre parole, i partiti vanno rinnovati, adeguati ai tempi senza perdere mai di vista il loro scopo e i loro valori. Il carattere ideologico si sta affievolendo sotto i colpi di una realtà sempre meno incline ad essere classificata in maniera netta e definitiva. Ci si preoccupa quindi che possa venir meno il comune senso di appartenenza, il vero collante di una formazione politica. A questo timore si può rispondere soltanto in un modo: favorendo il coinvolgimento. Come si fa?
Partecipare prima presupponeva l’essere in un determinato luogo, come ad esempio i circoli, oggi invece spesso si è attivi in rete? Basta questo? Ovviamente no, ma un uso consapevole e maturo della rete e in particolare dei social network, diventa estremamente rilevante, perché la comunità digitale di un partito è formata da donne e uomini in carne e ossa che poi nei circoli si incontrano davvero. La Rete può mettere i territori in contatto tra di loro e con i dirigenti, gli amministratori e i parlamentari. Con la velocità permessa dalla tecnologia, le notizie infatti circolano più facilmente e le buone pratiche presenti in alcune realtà possono essere conosciute anche in altre parti e magari riprodotte in altri territori ancora. Circoli e Rete quindi possono coesistere, devono coesistere con i primi che usano la seconda per comunicare tra di loro e con il centro del partito e poi con la seconda che moltiplica il coinvolgimento. Ho parlato delle finalità teoriche della nuova struttura di un partito in cui struttura tradizionale fatta di circoli e federazioni da una parte e nuovi mezzi offerti dalla tecnologia dall’altra, vengono integrati. Ora vorrei chiarire in che modo tradurre in pratica questo modello.
Circoli e Rete quindi possono coesistere, devono coesistere con i primi che usano la seconda per comunicare tra di loro e con il centro del partito e poi con la seconda che moltiplica il coinvolgimento
Centrale è la figura del community organizer. Ne immagino uno per ogni collegio elettorale in cui è suddiviso il nostro Paese. Ogni community organizer nel suo ambito territoriale di competenza ha dei compiti precisi: operare una analisi dei dati di carattere elettorale, anagrafico ed economico; stilare l’elenco delle associazioni di categoria, delle associazioni laiche o religiose, degli ordini professionali, in generale delle formazioni sociali presenti sul territorio da poter coinvolgere. Ancora, egli deve elencare quali sono i componenti del gruppo dirigente locale e quindi parlamentari, amministratori, consiglieri regionali, comunali, ecc, favorire il dialogo su singoli temi, sui provvedimenti in fase di approvazione, sulle proposte presentate dal partito, trasmettere umori e pareri che arrivano dal basso e tradurre le esigenze e i suggerimenti dei cittadini in piani per gli amministratori da attuare nel concreto. Infine egli deve organizzare la comunicazione stabilendo modi e tempi; effettuare un’attività costante di fact-checking e contrastare il linguaggio dell’odio in rete.
Con i community organizer si riesce a coinvolgere davvero l’elettorato nelle attività politiche. Ciò accade innanzitutto perché essi trasmettono le informazioni dall’alto verso il basso, cioè dal partito rappresentato da dirigenti e parlamentari, fino agli amministratori locali e agli elettori. Inoltre fanno arrivare i feedback dai territori al centro del partito, permettendo a quest’ultimo di definire il programma e le successive azioni da intraprendere. Infine permettono sia il dialogo tra il gruppo dirigente (locale e nazionale) e la base, sia la circolazione di notizie e il confronto all’interno della base stessa. I community organizer non sono semplici influencer, sono molto di più, grazie ad essi anche chi non è fisicamente presente può avere voce in capitolo, possono essere conosciute criticità a cui porre rimedio o diffuse buone prassi locali da prendere come modello e riproporre appunto altrove. Ciascuno si sente coinvolto e può diventare a sua volta, il community organizer del proprio gruppo di riferimento reale o virtuale, di lavoro, di studio, di amici.
Grazie al modo in cui viene facilitato lo scambio tra elettori e militanti stessi, l’utente isolato, l’elettore spesso spaesato, diventa un soggetto attivo, chiamato in causa a offrire il proprio contributo. Partecipare infatti, non significa solo essere presenti ma anche e soprattutto far sentire la propria voce. Recepire il riscontro dei propri elettori o potenziali tali è basilare per un partito per formulare progressivamente il proprio programma, per costruire un rapporto di reale fiducia e affidamento, per rendere più efficace e puntuale il proprio messaggio e soprattutto, per rendere la democrazia realmente rappresentativa. Il cittadino non deve sentirsi coinvolto solo al momento del voto, al cui appuntamento spesso arriva demotivato e scettico ma deve poter seguire tutto il percorso che ha portato alla decisione di determinate misure, all’adozione di un determinato programma e di particolari scelte. Deve poter dire la propria, deve poter avere informazioni verificate sui temi che più gli interessano. In una parola, egli deve sentirsi un soggetto attivo. Solo in questo modo la politica può dare risposte, a condizione che a tutti venga permesso di formulare innanzitutto le domande.
*già membro della segreteria del Partito Democratico con delega alla comunicazione da febbraio 2013 a settembre 2014