“Nella migliore delle ipotesi il pubblico tirerà dei pomodori allo schermo del cinema, ma preferirei che uscisse dalla sala sereno“. Così Eduardo Casanova, classe 1991, prevede la reazione degli spettatori davanti al suo primo lungometraggio, Pelle (Pieles, in lingua originale). Una specie di Manuale d’Amore che ha per protagonisti persone fisicamente (e/o mentalmente) deformi, emarginati, freak, individui che racchiudono tutto ciò che possa essere recepito disturbante a livello visivo ed emotivo.
Ci sono una ragazza senza occhi costretta a prostituirsi fin da bambina in un bordello gestito da una vecchia grassona perennemente nuda, un’adolescente che ha il sistema digerente al contrario e per questo motivo non può, tra le altre cose, postare selfie su Instagram o, più semplicemente, uscire di casa senza una maschera. Un pedofilo, un diciassettenne affetto da somatoparafrenia, disturbo per cui si ha la tendenza a non riconoscere un arto come proprio, che farebbe di tutto per liberarsi delle sue gambe diventando, finalmente, una sirena.
Pelle è ciò che potrebbe venir fuori se Almodovar, Lynch e Charles Manson si prendessero una sbronza insieme nel peggiore pub della più squallida topaia dell’universo conosciuto. Non è un horror, non è un dramma, non è una commedia, né un filmetto sentimentale ma ha tutti gli elementi principali di ognuno di questi (sotto)generi
Queste e tante altre sono le storie dei protagonisti che si intrecciano in modo quasi casuale alla luce dei colori predominanti della pellicola, il rosa e il lilla, pastello. Pelle è disponibile da qualche giorno su Netflix ed è stato presentato all’ultima Berlinale nella sezione Panorama, il secondo concorso più importante della kermesse. Il messaggio vorrebbe essere quello dell’accettazione dell’altro, del diverso e, soprattutto, di ciò che di altro e diverso esiste in ognuno di noi. Una presa di coscienza davvero difficile da digerire una volta messi davanti alla crudezza di ciò che ci viene sbattuto davanti agli occhi fin dai primi minuti, senza sconti.
Eduardo Casanova, 26enne, regista di videoclip, spot e cortometraggi – spesso sul tema della deformità, come Eat my shit -, ex teen idol ispanico, raggiunge la fama alla tenera età di 11 anni quando inizia a recitare nella serie Aida, una specie di Un posto al sole versione comedy molto popolare in Spagna.
Pelle è ciò che potrebbe venir fuori se Almodovar, Lynch e Charles Manson si prendessero una sbronza insieme nel peggiore pub della più squallida topaia dell’universo conosciuto. Non è un horror, non è un dramma, non è una commedia, né un filmetto sentimentale ma ha tutti gli elementi principali di ognuno di questi (sotto)generi.
Pelle è un punto di domanda. Potremmo trovarci davanti a una pellicola che racconta senza paura ciò che raccontabile non è, ciò che non si dovrebbe nemmeno pensare senza sentirsi inevitabilmente sporchi, come, invece e allo stesso tempo, potremmo trovarci davanti ad una ciofeca di cattivo gusto, una provocazione fine a se stessa, malriuscita e indigesta.
Pelle fa vomitare, fa schifo, fa senso. Dà la sensazione che non dovremmo essere lì, in quel momento, a guardare ciò che accade al gruppo di sventurati protagonisti con o senza pelle (sì, nel mucchio c’è anche chi non ce l’ha, la pelle).
D’altra parte, Pelle, a un soffio dai titoli di coda, con il bacio più disgustoso mai messo su pellicola, non riesce a lasciare indifferenti. Non ve ne consigliamo la visione come non ve la sconsigliamo. Provate a guardarlo, a stomaco vuoto, oppure fate finta che non esista, meglio così. Forse.
Secondo il giovane Eduardo Casanova dai capelli ossigenati, comunque, un’alternativa c’è. Oltre agli effetti speciali, al di là del torbido, tappandosi occhi e naso per andare ad esplorare un eventuale significato, si rischierebbe di imbattersi perfino in una morale. Una morale contorta, sbagliata, a tratti rivoluzionaria: nessuno è davvero troppo strambo da non trovare un posto nel mondo, oppure da non poter ribellarsi a quello che gli sarebbe destinato secondo la logica comune. Forse c’è bisogno di fare schifo, di non essere socialmente accettabili, di togliere il freno a mano, qualche volta, perfino di non avere paura. Di non avere paura di essere brutti, kitsch, mediocri, sbagliati perché dopotutto è ok, fa parte della nostra natura, stop the drama. Qualcuno capirà, qualcuno vi tirerà dei pomodori. Vale la pena di rischiare. Per essere, nella peggiore delle ipotesi, sereni.