Quando si cerca una fabbrica, in genere, le esperienze si assomigliano tutte: si imbocca una strada statale o provinciale, si seguono i cartelli neri e gialli delle zone industriali, si cerca l’indirizzo esatto tra i vari capannoni che si susseguono. Se però la fabbrica che cercate è la Guido Gobino, storico produttore di cioccolatini di Torino, l’esperienza è del tutto diversa. Si arriva in autobus in dieci minuti dalla stazione di Porta Nuova, si passa l’impetuosa Dora e ci si trova una rete di vie ortogonali con case basse. È solo arrivati al numero civico esatto di via Cagliari che si compone l’immagine di quel che si cerca: la vetrina di uno spaccio aziendale, con un po’ di movimento al piano di sopra. Attorno ci sono balconi, panni stesi e vita di quartiere di Torino.
Quella di Gobino è la storia di una piccola fabbrica che, da laboratorio artigianale, si è espansa nei conti (il fatturato si aggira sui 5 milioni di euro) e nel suo orizzonte geografico, dagli Stati Uniti ai Paesi del Golfo. Ma che non ha mai voluto abbandonare la sua sede originale. Mentre le città, riflettendo su Industria 4.0, organizzano piani quanto mai contemporanei volti a riportare la manifattura nei propri confini, come ha fatto di recente Milano, questa fabbrica di Torino dà l’impressione di essere diversi passi avanti. Sulla propria collocazione geografica, ma soprattutto sulla propria identità, sulla propria missione e sui mezzi per realizzarla. A togliere i dubbi su questa consapevolezza è proprio il titolare, Guido Gobino. «Pensiamo che mantenere la produzione in questo quartiere sia fondamentale», dice affacciandosi dall’ampia sala centrale dell’area uffici: ampie vetrate, opere d’arte contemporanea e molto understatement piemontese. «Cerchiamo di portare rispetto ai nostri vicini di casa, con le barriere antirumore e i filtri per i fumi. E vogliamo essere comodi per chi lavora con noi, non vogliamo costringerli a farsi ore di auto ogni giorno per lavorare».
In azienda dal 1985, Guido Gobino ha ereditato dal padre Giuseppe una piccola fabbrica di cioccolato (prima dedita anche alla produzione di caramelle) e l’ha fatta divenire un caso di studio. Ciò che vale la pena approfondire è un’apparente contraddizione, che ritorna in tutta la comunicazione aziendale: l’insistenza sia sull’artigianalità sia sulla tecnologia di cui si è dotata l’azienda. È il motivo per cui questa società è stata inserita tra quelle del progetto sul Made in Italy e innovazione condotto da Linkiesta e Messe Frankfurt, società che in Italia organizza, tra le altre manifestazioni, la fiera SPS IPC Drives Italia, dedicata alle imprese della meccanica e che si terrà alla Fiera di Parma dal 23 al 25 maggio.
«Secondo me il dovere dell’artigiano illuminato, che guarda avanti, è quello di vedere l’evoluzione di un sistema produttivo, attraverso l’industria: è l’industria che normalmente permette un’evoluzione che porta a migliorare l’aspetto produttivo»
Sul livello dell’artigianalità di Gobino basta sapere che nel 2008 uno dei prodotti, ora best seller, un cremino al sale marino integrale e olio extravergine di oliva, ha vinto il premio dell’Academy of Chocolate di Londra come “Migliore pralina del mondo”. Sul livello della tecnologia, un giro nei reparti produttivi ha mostrato il risultato dei massicci investimenti che nel 2011 sono stati effettuati su macchinari per la tostatura, il temperaggio, la mescolatura (per 10 ore, cosa che evita l’aggiunta di lecitina di soia nella maggior parte dei cioccolatini) e gli altri passaggi. In tutto sono dieci, perché la scelta della società è stata quella di far iniziare il processo produttivo direttamente dalla materia prima, le fave di cacao e le nocciole Piemonte Igp, e non da semilavorati. Per alcuni prodotti “monorigine” si usa inoltre del cacao proveniente da agricoltura rispettosa dei lavoratori e ambiente, dal presidio Slow Food della Chontalpa, in Messico, e da Sao Tomè. In fondo al processo la meccanizzazione si fa evidente nell’uso di macchine di packaging affinate nel corso degli anni. «Solo per migliorare la piega di questo involucro di alluminio – dice Gobino impugnando un gianduiotto di una serie deluxe – ci sono voluti molti mesi di studio con l’azienda meccanica. Sembrano inezie, ma una piega migliore significa togliere aria dal prodotto e allungare la vita media sugli scaffali». I risultati di questi processi sono i loro prodotti iconici: i gianduiotti, i cremini, i cioccolatini alla frutta candita, fino alle uova di Pasqua, queste ultime gioielli artistici, dipinti a mano. A mano avviene anche la sbucciatura di alcune fave di cacao da mettere intere in un tipo di cioccolatino.
Rieccoci alla commistione di tecnica e artigianato. Come si tengono assieme? La risposta che arriva da Gobino è chiara: «L’artigianalità una volta coincideva con la manualità. Un artigiano era qualcuno, come uno scultore o un ceramista, che faceva le cose a mano e le faceva bene. Nel cibo tutto era fortemente artigianale e manuale, dal lavoro del panettiere a quello del pasticciere. Poi come in tutte le cose si è sviluppata l’industria». A quel punto, per dare l’idea della reazione più adeguata, Gobino usa un termine molto sabaudo, dovere, magari da intendere con la “d’ maiuscola. «Secondo me il dovere dell’artigiano illuminato, che guarda avanti, è quello di vedere l’evoluzione di un sistema produttivo, attraverso l’industria: è l’industria che normalmente permette un’evoluzione che porta a migliorare l’aspetto produttivo. Ecco: cercare di arrivare attraverso l’industria al miglioramento di un processo che era legato alla manualità è il compito che io ho ereditato da mio padre».
Partono gli esempi: il temperaggio del cioccolato, il processo che permette di cristallizzare i grassi e in particolare il burro di cacao, un tempo era compito esclusivo di donne che immergevano la parte delle dita appena sotto le nocche, quella più sensibile al calore, per individuare la temperatura ideale per raffreddare il cioccolto. Ora al loro posto c’è una macchina temperatrice, anche perché le norme igieniche non permetterebbero gli assaggi precedenti.
«Non ho mai smesso di girare per le fabbriche, non solo del nostro settore, perché c’è sempre da imparare. Non finisco mai di appassionarmi di fronte a persone che impiegano anni a migliorare processi produttivi»
La tecologia è d’altra parte molto legata alla storia dell’attuale titolare. Dal momento del suo ingresso nell’azienda, nel 1985, racconta Guido Gobino, «non ho mai smesso di girare per le fabbriche, non solo del nostro settore, perché c’è sempre da imparare. Non finisco mai di appassionarmi di fronte a persone che impiegano anni a migliorare processi produttivi». Questa passione viene rivendicata con orgoglio – «Sono un uomo di processo, non di marketing» – e lo porta a scegliere in prima persona i macchinari da impiegare. Nella mattina dell’incontro, rivela, è stato acquistato un macchinario, usufruendo degli incentivi del piano Industria 4.0, varato dalla Legge di Bilancio 2017. Si tratta del “superammortamento” al 140%, mentre i tempi non sono ancora maturi, aggiunge, per i macchinari più tipici dell’industria 4.0. «Noi ci metteremo più tempo rispetto ad altre aziende per dotarci dei macchinari, perché abbiamo risorse diverse. Sarà un punto di arrivo, non di partenza», spiega.
Il secondo pilastro della dottrina di Gobino è altrettanto netto: mai la tecnologia dovrà servire a eccedere nella quantità, semmai a mantenere o ad alzare la qualità. «Se mio figlio, ora diciottenne, decidesse di continuare la mia strada, sono sicuro che non si farebbe attirare dalle quantità. In questi anni abbiamo avuto richieste anche da supermercati importanti, come Esselunga, ma abbiamo sempre detto che vogliamo fare pochi prodotti, farli bene e venderli nei posti giusti».
Il secondo pilastro della dottrina Gobino: mai la tecnologia dovrà servire a eccedere nella quantità, semmai a mantenere o ad alzare la qualità. «In questi anni abbiamo avuto richieste anche da supermercati importanti ma abbiamo sempre detto che vogliamo fare pochi prodotti, farli bene e venderli nei posti giusti»
Il terzo punto fermo è un altro aspetto che a lungo è stato considerato un limite ma che in tempi recenti – dalla lezione di Steve Jobs alla Apple in poi, arrivando fino alla piemontese Eataly – è tornato a essere visto come un punto di forza: la decisione di produrre non sulla base di analisi di mercato ma di propri gusti personali o comunque di scelte condivise con un piccolo gruppo di collaboratori. Ancora una volta torna anche il concetto del “dovere”. «Sono convinto che gli artigiani debbano creare nuove strade e debbano stimolare le sensazioni e le suggestioni. Noi dobbiamo vendere delle suggestioni. Io non ho mai prodotto un cioccolatino che non mi piaccia». È il concetto di “innovazione di senso” descritta da Roberto Verganti nel suo ultimi libro “Overcrowded”, che non ha caso ha tra i suoi punti fermi la creazione di un prodotto o servizio seguendo un percorso “inside-outside”, da dentro a fuori, ossia dai valori degli imprenditori o dei suoi collaboratori e non da focus group e stimoli del mercato. «Se seguissi il mercato, dovrei forse produrre un cioccolatino alla Coca-Cola. Mi hanno chiesto di abbinare i nostri prodotti ai pop corn, all’aceto balsamico o al Parmigiano Reggiano. Mi spiace, ma se una cosa non dà soddisfazione a me, non vedo perché debba produrla. Guardi che non è scontato: ci sono molti colleghi che cercano di cavalcare le onde, come quella attuale del crudismo. Io mi permetto di stare fuori dall’onda».
La conclusione non può che riguardare il Made in Italy, concetto che tiene assieme i precedenti. «Noi non ci rendiamo conto di avere tra le mani uno strumento pazzesco, che è il Made in Italy fatto bene. Non quello pizza e mandolino, quell’insieme unico di tecnologia e qualità. È un connubio che dobbiamo continuare a proporre perché è vincente, in quanto non ripetibile. La nostra tradizione, la nostra sapienza, che viene dalla campagna: in quanto contadini sappiamo valorizzare determinate nostre ricchezze».
«Sono convinto che gli artigiani debbano creare nuove strade e debbano stimolare le sensazioni e le suggestioni. Noi dobbiamo vendere delle suggestioni. Io non ho mai prodotto un cioccolatino che non mi piaccia»