Non fa neanche più notizia. Ormai i titoli dei media sono sulla proporzione degli occupati, sul tasso di disoccupazione, sul numero di inattivi, giustamente del resto.
Eppure negli ultimi dati relativi al mondo del lavoro pubblicati dall’ISTAT, risalenti alla fine del 2016 e all’inizio del 2017, sono stati toccati dei nuovi record in una voce che in fondo ha sempre attirato molta attenzione. Quella riguardante i lavoratori a termine.
Nel febbraio di quest’anno, così come a dicembre 2016, questi hanno raggiunto il 14,4% del totale dei dipendenti, il 10,9% se consideriamo tutti i lavoratori.
A inizio 2004 erano rispettivamente l’11,3% e l’8,1%. Può sembrare un piccolo cambiamento, ma non è così.
Ce ne accorgiamo se osserviamo i dati assoluti. Dai 15 milioni 993 mila dipendenti di 13 anni fa siamo passati ai 17 milioni 405 mila di oggi. Ebbene, del milione e 413 mila lavoratori in più, 691 mila sono rappresentati dai lavoratori a termine (cresciuti da 1 milione 810 mila a 2 milione 501 mila), quasi la metà.
La crescita di questi è stata superiore al 38% contro il +5% o poco più dei dipendenti permanenti.
Forse nulla di sorprendente, ma quello che dovrebbe fare alzare più di un sopracciglio è la constatazione che questo trend appare inesorabile, e che gli alti e i bassi che vediamo dipendono più dalla congiuntura economica che dalle leggi varate, in primis il Jobs Act, che poco effetto hanno sortito.
Tra il 2004 e oggi, infatti, sono intercorsi enormi cambiamenti economici, una crisi devastante, che ha colpito in modo totalmente asimmetrico e sproporzionato proprio i più giovani e i precari, e a questa è dovuta al calo del numero di dipendenti a termine tra metà 2008 e metà 2010 e poi ancora tra 2012 e 2013.
Questi sono stati i principali momenti in cui il lavoro precario è sembrato perdere terreno rispetto a quello permanente.
Finita la recessione si è provato, tramite il Jobs Act, appunto, e la decontribuzione delle assunzioni a tempo indeterminato, a ottenere lo stesso effetto, ma l’esito è stato mediocre, e si è manifestato solo per pochi mesi tra settembre 2015 e gennaio 2016.
Insomma, solo la crisi economica riesce a far calare il lavoro a termine, non certo qualcosa di cui gioire.
Anche volendo infatti concentrare lo sguardo sul periodo successivo alla legge sul lavoro, da marzo 2015 in poi, già nell’estate 2016 ogni effetto della decontribuzione appariva svanito e la crescita di questa tipologia di lavoro era ripresa ed è rimasta stabilmente superiore a quella dei posti permanenti.
Neanche l’invecchiamento e le riforme delle pensioni, che hanno incrementato la quota degli ultra-50 enni, in grande maggioranza a tempo indeterminato, tra i lavoratori, hanno potuto invertire questo trend, ma forse solo frenarlo.
Infatti se consideriamo solo i nuovi contratti di lavoro vediamo come quello a termine stia diventando sempre di più lo standard. Nel primo trimestre 2017 (per ora composto solo da gennaio e febbraio) si è superato il 70% di assunzioni effettuate in questo modo. Mai così tante. L’ultimo trimestre 2015, con il boom dei contratti permanenti (a causa della fine degli incentivi a dicembre), è ormai un ricordo.
Contemporaneamente la quota di contratti a termine cessati sul totale non si è modificata di molto, ed è comunque inferiore a quella raggiunta tra le assunzioni.
Non stupisce quindi il saldo positivo, pur con la variabilità stagionale, in contrasto con quello negativo dei contratti a tempo indeterminato, e non vengono molto in soccorso le trasformazioni da contratti già esistenti a termine in permanente, che appaiono in calo.
Non ha quindi funzionato granchè il Jobs Act nell’impedire che il contratto a tempo determinato divenisse quello principalmente usato dalle imprese.
Non è però tutta colpa del governo e della politica. Certo, sulla volontà di privilegiare altre destinazioni per le scarse risorse disponibili, come il taglio della TASI o l’anticipo pensionistico invece del taglio drastico del cuneo fiscale, non si può passare sopra. E non possiamo ignorare che il costo del licenziamento per le aziende italiane è tra i più alti in Europa.
Tuttavia stiamo innegabilmente entrando in un periodo di incertezza perenne, in cui ogni azienda non può prevedere cosa accadrà al proprio business il semestre successivo, men che meno gli anni a venire. Non solo per l’insicurezza che ogni elezione in Europa e USA può portare, con mille Brexit e Trump pronti a scompaginare i piani, ma anche per la sempre maggiore velocità dell’innovazione tecnologica che assottiglia i margini e distrugge presunte rendite di posizione in molti settori. Figuriamoci come questo sia vero nel panorama del nanismo industriale italiano, in cui troppe imprese si ritrovano a subire e a non a guidare i cambiamenti.
Consideriamo anche che nell’epoca dei servizi avanzati, spesso rivolti alla persona, il lato umano del lavoratore conta molto di più di quanto contasse nell’era della catena di montaggio, e l’imprenditore sente il bisogno di valutarlo e metterlo alla prova.
Forse dobbiamo rassegnarci a un mondo del lavoro in cui nulla è scontato, non ci sono certezze, né per l’azienda né per il lavoratore, in cui il passaggio a tempo indeterminato sarà utilizzato come un bonus da elargire al dipendente particolarmente meritevole o dalla competenza così elevata da rischiare di essere “rubato” dalla concorrenza, più che come lo standard.
Per il lavoratore quindi il contratto permanente sarà un fine da raggiungere nella propria carriera, un po’ come un certo livello di stipendio. E qualcuno non lo raggiungerà mai.
Ai governi piuttosto spetterà il compito di provare a garantire i paracadute per i redditi altalenanti di chi un salario non l’avrà sempre e non sempre agli stessi livelli. In un periodo in cui del resto sull’altalena dovranno stare tutti, aziende e governi inclusi.