INTERVISTAAlessandra Sardoni: “È l’irresponsabilità che ammazza l’Italia”

Alessandra Sardoni è un volto Tv non appariscente che porta sostanza nell'informazione politica. Nel suo ultimo libro, "Irresponsabili", racconta attacchi strumentali e assoluzioni reciproche tra politica, magistratura, informazione. L’alibi perfetto per non fare le cose

Alessandra Sardoni è finita in Tv per caso. Non è appariscente. Non semplifica. Le piace la musica classica. E scrive libri. L’ultimo è Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza (Rizzoli) che, a detta sua, non è molto ottimista. Anche se, in fondo, Sardoni crede “nel valore delle leadership e nella responsabilità etica e politica”. E parla dei vizi dei politici in Tv che non rispondono subito alle sue domande “o perché sfuggono, o perché hanno una retorica antica”. Della crisi delle élite, quindi del giornalismo: “c’è un garantismo e un giustizialismo a priori, tutti parlano per partito preso e tutti scrivono sempre lo stesso articolo”. E delle donne che hanno paura di parlare di altre donne in pubblico. “È una libertà che non abbiamo, nemmeno quando le intervistiamo”, spiega Sardoni. “Se intervisto una donna devo essere meno aggressiva di quanto sarei con un uomo”. Durante l’intervista non mi è mai venuta voglia di essere aggressiva. Sarà perché Sardoni è finita in Tv per caso. Non è appariscente e non semplifica le cose. O perché le piace la musica classica. E scrive libri non ottimisti. Che in realtà, per lo sforzo di ricostruzione e l’impegno, finiscono per esserlo. Ottimisti.

Sei una non appariscente che sta in Tv. Come ci sei finita?
Per caso. Non avevo mai pensato di condurre un programma, anzi, avrei voluto lavorare in un giornale. All’inizio facevo piccole dirette per il Tg La7, molto diverse dalle maratone di Enrico Mentana. Un’estate decisero di fare un esperimento, Otto e mezzo estate. Giuliano Ferrara aveva scelto Pietrangelo Buttafuoco e aveva pensato che io potessi essere la sua compagna di banco. Mi piaceva fare giornalismo politico, tuttora ritengo di essere una cronista politica parlamentare. E quello era lo spazio che avevo per farlo, quindi andava bene. Poi nel 2012 Mentana mi ha chiesto di condurre Omnibus, alternandomi con Andrea Pancani e Gaia Tortora. Sono spazi di approfondimento serio.

In questo periodo sui giornali si parla spesso di crisi delle élite e del giornalismo che è diventato elitario, incapace di mediare.
Sono anni che diciamo che il giornalismo politico si occupa di cose che alle persone non interessano, in qualche modo dev’essere vero, soprattutto per i più giovani.

La politica può dire: “faccio quello che voglio tanto il magistrato mi elimina l’avversario”, o anche: “se ho governato male è perché le procure non mi hanno lasciato governare”. Addirittura il politico di turno lo dice prima: “eh, se poi arrivano le procure”. E così ha una specie di sconto sul suo deficit d’azione, di governo

Tullio De Mauro, con il quale ti sei laureata in Filosofia del linguaggio, nel “Diario linguistico” scritto per Nuovi Argomenti parlava della funzione innovatrice della Rai negli anni ’60, dei programmi per porre rimedio all’analfabetismo o per insegnare alla gente il linguaggio politico…
Nostalgia di quel tempo?

C’è ancora un intento pedagogico nella Tv italiana?
La Rai di quel tempo aveva una funzione educativa reale perché c’era un analfabetismo reale. Adesso hai la rete. Oggi la modalità pedagogica può essere indiretta o affidata a canali molto specializzati. Ci sono dei programmi di questo tipo che funzionano, come quelli di Piero e Alberto Angela.

Ma i programmi Tv “viscerali” sono i più seguiti pare…
Ci siamo autoconvinti che è così, e assecondiamo questa tendenza. Sono gli stessi difetti che attribuiamo alla politica: di diventare sempre più schematica per andare incontro alla “pancia” del paese. Invece lo sforzo di mediazione lo devi fare. Si deve tener conto dei gusti del pubblico -questo è vero anche per la politica-, ma devi anche proporre qualcosa.

Per esempio cosa?
Credo nello sforzo di trovare persone nuove. Ma è difficile: inviti certi personaggi politici perché “sono una faccia”, la gente li riconosce e si ferma. Quando viene uno sconosciuto ci mette un po’ ad affermarsi, quindi bisogna fare la fatica d’investire su quella “non faccia”. Ad Omnibus cerchiamo di farlo, anche se in genere va di moda un ospite e tutti lo chiamano. Poi sono anche i partiti a decidere chi mandare in Tv, puoi pure scegliere ma se ti dicono che è quello è quello, fa parte delle scelte di comunicazione del partito, devi adattarti.

Come fai ad evitare il siparietto in cui tutti sanno già cosa dire?
Cerchiamo di mettere insieme persone che siano in grado di ragionare in televisione. Proprio perché prendo sul serio le posizioni dei partiti vorrei che ad esprimerle fossero politici competenti.

Quali sono i peggiori errori dei politici in Tv?
Il non rispondere subito alla domanda, il tergiversare. Lo fanno o perché sfuggono, o perché hanno una retorica antica, quindi partono da lontanissimo e senti che è il retaggio di una vecchia impostazione del linguaggio politico.

Un linguaggio pre-televisivo…
Li vedi che partono “eee…”. Poi mi dà fastidio quando capita che non sono preparati, qualche volta pensano di poter dire la qualunque senza fare uno sforzo. Soprattutto quando trattiamo argomenti complessi ti aspetti che la classe dirigente cerchi di approfondire e di avvicinarsi agli altri. Per poter spiegare le cose alle persone con un linguaggio semplice -questo sì viene da De Mauro- le devi sapere molto bene. Invece spesso hai la sensazione che alcuni politici si muovano a livello dello slogan, o che arrivino con le frasi già preconfezionate dall’ufficio stampa.

Da recita.
A volte non sono in grado di seguire la discussione in studio e si scocciano con me perché dicono che ho già in testa la risposta che dovrebbero darmi.

Che vuoi portarli a dire qualcosa?
Che metto lì un argomento. A volte succede perché già so in che direzione vogliono andare, allora mi viene da dire: “dai ti prego, azzarda!”.

Ti sembra che qualche politico creda in quello che dice?
Sicuramente c’è un problema di visione, di ricette che non si trovano, di studi che non si fanno. Trovo triste che ci siano molte fondazioni ma che nessuna faccia quello che deve: studiare. Più che la malafede il problema è la bassa qualità con cui fanno il loro lavoro di politici.

Voglia solo di farsi vedere?
Voglio sperare che chi sceglie la politica oggi lo faccia per passione. Ma ci sono quelli che lo fanno per fame di una generica notorietà, che potrebbe venirgli da altri settori: spettacolo, Tv, calcio. Per fortuna non è la maggioranza.

Quando viene uno sconosciuto ci mette un po’ ad affermarsi, quindi bisogna fare la fatica d’investire su quella “non faccia”. Ad Omnibus cerchiamo di farlo, anche se in genere va di moda un ospite e tutti lo chiamano

C’è un capitolo del libro in cui spieghi che la responsabilità individuale politica ed etica è distinta da quella giudiziaria. E che proprio la responsabilità individuale potrebbe essere la condizione per l’affermazione di leadership trasparenti, efficaci, consapevoli. È un discorso molto razionale e ottimista.
Il libro non è molto ottimista.

Ma ci ho trovato questa scintilla…
Invece, pensa, mi hanno detto che questo libro è disperato, che taglio ogni via d’uscita quando critico l’irresponsabilità dei giudici.

Ma è un impegno serio, di ricostruzione.
La scintilla c’è, perché credo nel valore delle leadership e nella loro responsabilità. Bisognerebbe spezzare il circolo vizioso del doppiopesismo, del “due pesi-due misure”. Come il labirinto che si è creato nei rapporti fra politica e giustizia. Ecco, questo tema in se stesso è un modo per deresponsabilizzarsi, vantaggioso per tutti.

Spiega meglio.
La politica può dire: “faccio quello che voglio tanto il magistrato mi elimina l’avversario”, o anche: “se ho governato male è perché le procure non mi hanno lasciato governare”. Addirittura il politico di turno lo dice prima: “eh, se poi arrivano le procure”. E così ha una specie di sconto sul suo deficit d’azione, di governo. Questo è un lato della questione.

L’altro lato?
I magistrati a loro volta dicono: “se mi deleghi e faccio questo lavoro per te, politico, poi non puoi rendermi responsabile”. E noi giornalisti non siamo da meno. Delle volte, anziché cercare altro, ci accontentiamo della notizia o dell’inchiesta che ci viene scodellata, e che spesso ha un fine solo strumentale.

E che dobbiamo fare?
Non rassegnarci ai vantaggi dell’immobilismo. Il tema del debito pubblico che si è visto nell’epoca di Tangentopoli e ora ritorna, è centrale. Anche l’opinione pubblica ha sete di trovare il colpevole.

È un’idea molto cristiana… Che i colpevoli paghino, che la colpa si possa riassorbire ad opera della volontà.
Da una parte sì.

Cosa scatena la rabbia dell’opinione pubblica?
È da queste ambiguità dei politici, dei magistrati e dei giornalisti che nascono le proteste in piazza, la violenza verbale che si nota in rete.

I Cinquestelle sono di destra e di sinistra. C’è l’uscita di Luigi Di Maio sui rumeni che sembra guardare a un certo tipo di destra, e poi hanno dello statalismo che strizza l’occhio alla sinistra. Pescano nei due mondi destra sinistra per la fascia adulta, e nella rabbia per i giovani

Del Movimento 5 Stelle che pensi? Sono di destra o di sinistra?
Pescano un po’ da tutte le parti. C’è l’uscita di Luigi Di Maio sui rumeni che sembra guardare a un certo tipo di destra, e poi hanno dello statalismo che strizza l’occhio alla sinistra. Pescano nei due mondi destra sinistra per la fascia adulta, e nella rabbia per i giovani.

Élite lontane dalla gente. Certi giornali scrivono: “sono i bifolchi a votare per Trump, o per i 5 Stelle. Noi siamo i razionali, gli illuminati, nell’isola felice”.
Non è un’isola felice. In realtà i giornali ora vivono sotto assedio.

Crisi delle élite crisi dei giornali, crisi dei giornali crisi delle élite.
La crisi delle élite è una cosa seria e grave. E noi, in Italia, abbiamo avuto un’élite più debole di quella di altri paesi europei.

Be’ c’era una volta un’élite forte anche qui, penso ai tempi di Pasolini.
Sì, la sinistra intellettuale che parlava in modo semplice. Ma oggi il peso degli editoriali -come quelli che scriveva Pasolini- nel dibattito pubblico non è più lo stesso. Adesso i giornali, per il fatto che li leggono meno persone…

Si parlano fra di loro.
E smontano l’autorevolezza della sfera pubblica. Eppure avremmo tutti bisogno di riconoscere che qualcuno è più competente di noi. Non si fa più ed è anche colpa nostra, dei giornalisti.

Colpa, responsabilità…
A meno che uno non voglia vivere in una società narcisista tutta concentrata sul presente, bisogna porsi il problema delle conseguenze, delle responsabilità.

Proprio sulla questione della responsabilità, anzi, della colpa, il Movimento 5 Stelle riscuote consensi.
Lo fanno tutti. La Lega ma anche il Pd, duole dirlo. Il paradosso è proprio questo: si colpevolizzano a vicenda e questo li autorizza ad essere irresponsabili. Oltre a questo circolo vizioso bisognerebbe sbloccare anche il dibattito intellettuale che ormai ha le sue fissità: c’è un garantismo e un giustizialismo a priori, tutti parlano per partito preso e tutti scrivono sempre lo stesso articolo.

Per esempio il caso Consip.
Anche nel caso Consip, alcune delle posizioni erano prese a priori, in maniera politicamente strumentale.

Come si può pensare che la gente si metta a leggere questi articoli tutti uguali, di lotta tra fazioni, mi annoio anch’io…
Dovremmo scrivere articoli capaci di raccontare la storia, perché qui una storia c’è. Un appalto enorme, un reo confesso di corruzione. Però non si può leggere tutto in termini “qualsiasi inchiesta è giustificata” o “qualsiasi inchiesta è ingiustificata”. Forse poter dare un giudizio condiviso su almeno una cosa migliorerebbe la situazione, per esempio: qualcuno si dovrebbe dimettere e siamo tutti d’accordo. Ma sono molto pessimista.

Massacro Diaz: il patto tra destra e sinistra è stato: non si dimette l’allora Ministro dell’Interno Scajola (di destra), non si dimette De Gennaro (di sinistra). Io non credo che De Gennaro abbia dato l’ordine di picchiare e torturare queste persone, però il capo era lui, e una cosa del genere non doveva succedere. In America, a Seattle, Norm Stamper, il capo della polizia, si è dimesso dopo pochi giorni

A proposito di dimissioni: nel primo capitolo parli del massacro Diaz. Saranno proprio quelle dimissioni mancate ad accrescere il potere di Gianni De Gennaro…
In questo caso il capo della polizia non ha pagato un prezzo politico, di responsabilità oggettiva. È stato stipulato un patto consociativo fra il governo di centrodestra e l’ex governo di centrosinistra. Luciano Violante e Massimo D’Alema volevano proteggere De Gennaro, appena nominato capo della polizia, che aveva un rapporto molto stretto con Violante. La sinistra aveva perso le elezioni e si apprestava a una “traversata nel deserto”; sapeva che Berlusconi aveva un grande potere e non voleva rinunciare a una casella così importante come quella in quel momento occupata da De Gennaro. Il patto tra destra e sinistra è stato: non si dimette l’allora Ministro dell’Interno Scajola (di destra), non si dimette De Gennaro (di sinistra). Io non credo che De Gennaro abbia dato l’ordine di picchiare e torturare queste persone, però…

Però…
Il capo era lui, e una cosa del genere non doveva succedere. In America, a Seattle, Norm Stamper, il capo della polizia, si è dimesso dopo pochi giorni. C’è qualcosa che non funziona. Se viene elaborata una copertura politica così complessa è chiaro che il potere si consolida: hai avuto così tanto potere da spingere gli altri a coprirti le spalle.

L’ultimo politico responsabile secondo te chi è stato? Responsabile in senso etico e politico.
Oddio.

Se c’è stato. Perché magari è un’utopia.
Ci sono fatti di sistema, di alternanza. Possiamo dire che Prodi e Berlusconi sono stati responsabili delle loro azioni nel senso che sappiamo quello che hanno o non hanno fatto perché, per la prima volta dal ’94, si era creato un meccanismo più maggioritario, una forma di bipolarismo.

E in qualche modo l’opinione pubblica perdona.
Questa è un’altra nostra caratteristica, nulla è mai definitivo, sempre il circuito del doppiopesismo. S’innesca e fa sì che tutti possano tornare in campo. Ci si dimentica del resto.

Le donne che raggiungono una certa posizione politica rinunciano ad una parte della loro femminilità per essere giudicate credibili?
Non lo penso. E non credo sia vero che “le donne sono nemiche delle altre donne”. Sarà capitato anche a te, se esprimi una critica su un’altra donna, c’è sempre un uomo che ti dice con il sorrisetto: “le peggiori nemiche delle donne siete voi donne”.

Questo può succedere anche fra uomini: “lui mi sta simpatico, l’altro è figlio di…”.
Infatti succede. Purtroppo per le donne spesso c’è l’elemento “la metto lì perché è una donna”. L’abbiamo visto con il governo Berlusconi e anche con il governo Renzi, quando dicono: “eh questo governo è il più figo del mondo perché ha messo tante donne al governo”. Molte -alcune sono bravissime- sono state messe lì perché donne, non perché brave. Ancora c’è un esercizio forte del potere maschile.

Bisognerebbe giudicare solo le azioni senza badare ai retroscena, al chiacchiericcio, magari sull’avvenenza, che può condizionare i costumi, i modi, la vita lavorativa di molte…
Prendiamo Paola Severino o Elsa Fornero. Sono donne che si sono fatte largo senza rinunciare alla propria femminilità. Non c’è un discorso pubblico sul fatto che le donne sono molto inibite nel parlare di altre donne pubblicamente. Se intervisto una donna devo essere meno aggressiva di quanto sarei con un uomo per non dare adito all’idea che se lo faccio è perché sono in competizione. È una libertà che non abbiamo, nemmeno quando le intervistiamo.

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