No, un biberon pieno di Pepsi forse non era l’ideale, per un bambino di neanche un anno.
Quando ha scritto la sua straordinaria storia di riscatto sociale, James David Vance ha ricordato questo incredibile episodio della sua infanzia scoperto anni dopo, protagonista una madre intontita dalla droga, la costante di una figura instabile e inaffidabile nella sua vita.
Certo Vance, che si firma J.D., non immaginava quanto il suo libro, uscito lo scorso anno e coperto di elogi dalla critica, sarebbe diventato improvvisamente prezioso al di là dei meriti letterari. Quasi una guida, per capire un pezzo importante e poco visibile di un’America che con l’elezione di Trump si è scoperta profondamente diversa, davanti allo specchio delle elezioni 2017. Perché la sua storia descrive dall’interno una delle comunità bianche, povere e disperate, considerate lo zoccolo duro del presidente.
“Non sono uno che si è fatto da solo”, ha ricordato Bill Gates, quando qualche giorno fa ha consigliato sul suo blog la lettura del libro di Vance, “Hillbilly Elegy” (HarperCollins Publishers), che in Italia si chiama Elegia Americana, edito da Garzanti. L’ha fatto per spiegare che per uno come lui, arrivato al successo facendo tesoro di una situazione economica e sociale di grande favore, la storia di un’affermazione personale realizzata malgrado condizioni spaventosamente svantaggiate abbia avuto un fascino particolare. È un libro, dice Gates, che «fa luce sull’enorme divario culturale della nostra nazione, un tema divenuto molto più rilevante di quanto Vance potesse mai sognare mentre scriveva il suo libro».
“Hillbilly” è il soprannome della comunità bianca che vive nella zona degli Appalachi, la catena montuosa che corre parallela alla costa orientale del Nordamerica, dal Canada sino all’Alabama, dove prende il nome di monti Unakas. Origini nordirlandesi, un’emigrazione fra Settecento e Ottocento da un Ulster in cui molti erano arrivati nel Seicento con la Plantation, la colonizzazione forzata di contadini protestanti da Scozia e Nord Inghilterra. Una matrice che si ritrova nel bluegrass, la musica tradizionale degli Appalachi, melodie incalzanti con violino, chitarra e soprattutto banjo. Un’impenetrabilità immortalata sullo schermo, dall’inquietante “Un tranquillo weekend di paura” (Deliverance, 1972, John Boorman).
Hillbilly ha pure un’accezione negativa, sinonimo di rozzezza, isolamento. La storia personale di Vance è impressionante e supera ogni stereotipo. Un quadro sociale spaventoso, per chiusura e degrado, un gruppo raccontato impietosamente da una mente brillante, consapevole di esser stato fra i pochissimi capaci di fuggire, realizzarsi liberandosi di meccanismi e consuetudini micidiali che inchiodano alla rassegnazione, alla violenza.
Vance è stato allevato dalla nonna, che chiama “Mamaw”, una delle poche figure dai risvolti positivi, che in qualche modo hanno ispirato il suo riscatto. Il padre è svanito, la madre quasi sempre preda della droga, sperperava danaro, entrava e usciva dalla sua vita con al fianco figure maschili sempre diverse.
Gli Hillbilly, spiega, sono marchiati dalla rassegnazione. Si considerano un mondo a parte, per loro lo Stato e la legge sono estranei, come lo sono i connazionali che non provengono dal loro gruppo. La violenza brutale è il modo più semplice per farsi valere o almeno sfogarsi. Anche all’interno della famiglia, con una paradossale contraddizione, fra il culto ossessivo della comunità, la retorica dei legami di sangue e la realtà miserabile e disperata che i genitori riservano ai propri figli.
Una parte di quel gruppo ha conosciuto un piccolo progresso sociale, spostandosi dal Kentucky nelle zone industriali dell’Ohio, per poi riprecipitare nel degrado con la chiusura di fabbriche e miniere, osserva Vance. Che si presenta con umiltà e persino un po’ d’imbarazzo (“ho trentun anni e non ho fatto niente di speciale, non ho raggiunto risultati eccezionali…”): dopo l’high school, l’arruolamento nei marines e il servizio in Iraq, al ritorno dopo la laurea alla Ohio state University il diploma alla Yale Law School e oggi un lavoro in una società finanziaria di Silicon Valley.
È un libro, dice Bill Gates, che «fa luce sull’enorme divario culturale della nostra nazione, un tema divenuto molto più rilevante di quanto Vance potesse mai sognare mentre scriveva il suo libro»
Quello che rende eccezionale il suo percorso non sono i risultati della sua carriera ma il fatto di essere forse il primo ad averli raggiunti malgrado l’handicap rappresentato non dalla miseria di quel gruppo di origine ma dai suoi valori, dai suoi modi di pensare: proprio quelIl gap culturale che ha colpito anche Bill Gates. Perche gli Hillbilly, dice Vance sin dall’inizio, non sono sbandati e degradati perché sono poveri. Sono poveri perché il loro degrado, il loro feroce isolamento culturale non permette loro di adattarsi ai cambiamenti, cogliere le opportunità invece di arroccarsi, come se il costante senso rabbioso e disperato di alienazione e frustrazione dipendesse dal mondo circostante, non da loro.
Vance ricorda nell’introduzione quanto imparò nella sua esperienza da ragazzo in un deposito di piastrelle, lavoro ben retribuito ma molto faticoso. Lì lavorava pure Bob, che a 19 anni stava per diventare padre. Il titolare offrì generosamente un posto anche alla ragazza incinta ma dovette licenziarla perché ogni tre giorni di lavoro non si presentava, senza nemmeno avvisare. Niente al confronto con Bob, che ogni settimana saltava un giorno di lavoro, era sempre in ritardo ma soprattutto nel suo turno si prendeva tre o quattro pause in bagno di almeno mezz’ora, al punto che i colleghi cominciarono scherzosamente a cronometrarle, per vedere se batteva il suo record… Quando venne licenziato, Bob si mise a urlare “Come puoi farmi questo? Non sai che ho una ragazza incinta?”. Questo episodio per Vance vale più di analisi macroeconomiche. Una persona che non sa tenersi un lavoro (e un’indispensabile copertura sanitaria) per l’assoluta inaffidabilità, l’idea di non aver alcun controllo sulla propria vita, che non esista responsabilità individuale, il vittimismo di accusare sempre qualcuno per le proprie sventure, mai se stessi.
“Biografia di una famiglia e una cultura in crisi” è il sottotitolo del libro (chissà perché sparito nell’edizione italiana). Davvero prezioso, perché oggi più che mai sono i valori e i modi di pensare, cioè la cultura, a determinare chi siamo ma soprattutto chi possiamo diventare. Non solo nell’America di Trump.
(Grazie a Franco Folini e Francesco Lacapra, amici preziosi e imprenditori a Silicon Valley, che prima di Bill Gates mi hanno fatto scoprire questo libro)
* autore del progetto Italiani di Frontiera