La più amata, di Teresa Ciabatti: è l’insicurezza a tenerci vivi

Teresa Ciabatti con il romanzo "La più amata" è candidata al Premio Strega 2017, e ci ricorda che non si può essere sicuri di niente ma che è l’insicurezza a tenerci vivi, stando all’erta.

Molti libri e molti autori hanno lo scopo, o la pretesa, di dare delle risposte, mostrando, spiegando, chiarendo. Spesso siamo proprio noi lettori a volerne e le cerchiamo nelle pagine scritte e bianche o tra le righe. In questo senso, scrivere e leggere può essere rassicurante, anche esaltante. Attraverso una storia, scopriamo qualcosa (degli altri, di noi stessi) ed è qualcosa che si aggiunge a quello che già possedevamo. E può farci bene o male, quello dipende dai casi.

Ci sono, però, altri libri e altri autori che centrano il proprio obiettivo non fornendo una o più risposte, ma raccontando una domanda. E alcune domande sono complicate, pericolose, dolorose, e innescano altre domande azionando una serie di punti interrogativi che possono smontare tutto, mandare ogni certezza alle ortiche.

Teresa Ciabatti e il suo La più amata appartengono a questa seconda categoria. In questo romanzo la domanda è enorme: chi era mio padre? Un proposito che viene ripetuto quasi morbosamente durante il libro, decine di volte: «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre.»
Chi è Lorenzo Ciabatti? Il Professore, l’istituzione di Orbetello, un benefattore, un massone, un fascista, un marito, un padre. Di lui non sanno granché né la moglie né i figli, neppure a distanza di anni. Teresa Ciabatti vuole scoprirlo e su questo tentativo scrive un libro che non è per tutti, ma da cui difficilmente dopo puoi staccare gli occhi.

Tutto potrebbe basarsi su un trucco da quattro soldi, un bel po’ di fumo e di effetti speciali per farci girare le pagine avidamente, stuzzicando il nostro gusto per lo scoop, per i fatti svelati, per i fatti degli altri. Per di più qui si parla di cose nostre, italiane, si parla di P2, di politici, figure nell’ombra, ambiguità. Se però leggete La più amata per scoprire qualcosa, avete sbagliato strada.

Con una scrittura priva di qualsiasi fronzolo pretenzioso e una struttura che sembra pensata più per ostacolare che per guidare, leggendo questo romanzo di poco più di duecento pagine mi rendo conto di avere in mano qualcosa di importante. E me ne accorgo dopo un po’, come con una sostanza che fa effetto lentamente ma che poi ti esplode dentro di colpo.

Questo è il romanzo sull’Italia, mi dico. Di più. Questo è il romanzo sull’essere figli, sui padri, su tutto. Un’autofiction, possibile?
I misteri sono una delle cose più italiane che ci sono. Ombre, segreti, faccende mai chiarite, vicinissimi a capire finalmente cosa è successo per davvero e poi invece niente, ancora una volta. La più amata è un ottovolante dove ci sei tu su un seggiolino sparato a grande velocità, spinto a calci da qualcuno che non sai chi è e che cambia ogni volta per afferrare un pennacchio a cui vai vicino, vai addosso, lo prendi, forse non l’hai preso tu, forse è ancora lì, forse neanche c’era. E ti senti come Teresa Ciabatti, diventi Teresa Ciabatti, sembra tu stia cercando di capire chi accidenti fosse il tuo, di padre, cosa sapesse la tua, di madre.

Le domande si auto-alimentano senza che tu possa farci niente. All’inizio è inebriante, quasi divertente – perché oltretutto la Ciabatti è anche molto divertente – poi però senti un leggero panico, vuoi scendere dal maledetto ottovolante perché capisci che andando avanti non può succedere nulla di buono. Perché le domande si accavallano, pesano, scavano, provocano crolli. Qui trovo un casino, altro che risposte.

La voce narrante è poi talmente forte, talmente vera e penetrante che è difficile provare a tranquillizzarsi, chiudere il libro e dirsi che tanto tu non sei Teresa Ciabatti, tuo padre non è Lorenzo Ciabatti e Orbetello lo sai a malapena indicare sulla mappa. E forse è proprio la voce la cosa più riuscita del romanzo, il valore aggiunto, la questione attorno a cui l’autrice e l’editor – come si dice a un certo punto nel libro – si interrogano. Non è una voce bambina, ma neppure adulta. Quanto è vicina e quanto è lontana nel tempo, rispetto a quello che racconta? È autentica quando entra nei pensieri del padre o della madre? Dov’è il confine tra verità e finzione, realtà e immaginazione?

Così Teresa Ciabatti diventa come Zeno Cosini: attraente, ipnotizzante, simpatico, antipatico, fa tenerezza, fa rabbia, fa pena. La voce narrante de La più amata è la voce di tutti noi che proviamo a ricordare e che allo stesso tempo vorremmo non riuscirci, è la voce della memoria che si sforza, procede per illuminazioni, ritrova, scorda, inventa. Così come succede chiudendo La coscienza di Zeno, cosa ci assicura anche qui che la narratrice-protagonista – e anche autrice – non ci abbia mentito? Quanto ha inventato? Qual è il dosaggio di autobiografia e di finzione?

Alla fine verrebbe voglia di porre quasi con rabbia queste domande proprio all’autrice, perché con questo libro ci si sente presi in giro, spogliati. Volevamo farci i fatti tuoi, Ciabatti, vederti mentre ti mettevi a nudo, invece ci ritroviamo noi nudi e tremanti, spaesati. C’eravamo quanto te in quella piscina, salvati da una gallina, o alla festa con il vestito imbarazzante, o ragazzini tra i discorsi incomprensibili degli adulti, o adulti noi stessi con dei fogli in mano per capire a distanza di vent’anni cosa rimane delle proprietà di Orbetello e dei conti in Svizzera.

Così mentre continuiamo a rigirarci tra i denti i perché, a guardarci attorno in attesa di un salvagente, capiamo una cosa fondamentale, che ci siamo detti tante volte ma che forse non avevamo compreso fino in fondo: che non ci sono abbastanza risposte per tutte le domande che possiamo porci. Fine.

Mettiamoci l’anima in pace. Se vogliamo correre possiamo farlo, ma niente ci assicura un traguardo, nessuno ci dice che non ci saremo solo noi e il fiato corto. E questo non è nient’altro se non la nostra condizione naturale. Nutriamo delle aspettative senza avere nulla in mano. Con un libro, con un viaggio, con un lavoro, con una persona. A vederci dall’esterno siamo teneri, o forse persino eroici, perché andare con la mente più in là di adesso, avanti o indietro, si rivela soltanto un’astrazione, un’invenzione. Immaginiamo un futuro che cambia istante dopo istante e cambia addirittura il passato, se proviamo a ritornarci. E non c’è soluzione, né consolazione, se non sapendo che è così per tutti.

Teresa Ciabatti con questo suo libro mi ha ricordato che non si può essere sicuri di niente ma che è l’insicurezza a tenerci vivi, stando all’erta. E che di fronte a tutto ciò siamo soli, ma anche che siamo in tanti a esserlo, e forse così fa un po’ meno paura.

Perciò spero che Teresa Ciabatti vinca il Premio Strega, in modo che tanti altri ancora possano leggerla. Perché nell’oceano di incertezza che ha raccontato e che ha aperto dentro chi le è andato dietro c’è una cosa certa: La più amata è un libro che rimarrà.

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