TaccolaLa verità, vi prego, sul ministro delle finanze europeo

Lo citano tutti: Macron, Schauble, Renzi, Padoan. Ma ognuno ha una propria idea di ministro delle finanze europeo. Deve essere un controllore dell’austerità o un dispensatore di sussidi di disoccupazione europei? La soluzione è un compromesso più che onorevole

ALAIN JOCARD / AFP

L’ultimo in ordine di tempo a invocare un ministro delle finanze europeo è stato il ministro dell’Economia e Finanze Pier Carlo Padoan. Lo ha fatto durante una lectio magistralis all’Università Aldo Moro di Bari. «È necessaria una fiscal stance (politica di bilancio, ndr) dell’Eurozona, non basta la semplice sommatoria delle scelte di politica di bilancio dei Paesi membri», ha detto. Molti altri da un paio d’anni stanno ribadendo il concetto. Lo scorso aprile ci aveva pensato Enrico Letta. Nel febbraio 2016 era stato il governo guidato da Matteo Renzi a mandare un documento a Bruxelles nel quale si chiedeva “Una politica condivisa per la crescita, il lavoro e la stabilità”, che avrebbe previsto anche la figura di un super-ministro delle finanze unico per l’Eurozona. D’altra parte anche il ministro delle Finanze tedesco, il “falco” Wolfgang Schauble lo propone da almeno il 2012. Ed Emmanuel Macron, novello presidente della Repubblica francese, ne ha fatto un cavallo di battaglia non solo durante l’ultima campagna elettorale. Ma anche, con coerenza, durante il suo periodo da ministro dell’economia e industria.

Tutti d’accordo, allora? Neanche per sogno. Se c’è un tema scivoloso, in cui regna una voluta ambiguità, in Europa, è proprio questo. Ognuno invoca un ministro unico ma ognuno ne ha in mente uno diverso. A fare il punto sulle differenze ci aveva già pensato, nel 2015, un paper curato dal Jacques Delors Institut, sede di Berlino un think thank franco-tedesco.

Quando si parla di un ministro europeo, spiegava il paper, ci sono due visioni: quella di Schauble e quella di Macron. La prima si concentra sul concetto di “condivisione di sovranità”, la seconda (ricalcata da quella del governo Renzi) su quello di “condivisione del rischio”. Che significa? È intuibile. Condividere la sovranità si può tradurre con “controllo”. Condividere il rischio con “solidarità europea”. Il ministro descritto da Schauble nel 2012 dovrebbe avere il potere di monitorare i livelli dei debiti dei Paesi membri dell’Eurozona e di porre il veto sui bilanci degli stati. È una proposta visione, spiega il paper, a quella dell’ex presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. Si parlerebbe quindi di un supervisore dell‘area euro, limitato da delle regole.

Totalmente diversa la visione a suo tempo descritta dal Macron ministro delle Finanze. Condivisione dei rischi vuol dire trasferimenti di finanze all’interno dell’area euro, visti come condizione essenziale per far funzionare la moneta unica. La proposta prevedeva di dare qualche potere discrezionale su una “capacità fiscale dell’area euro” al ministro delle finanze comunitario. Più che un supervisore, sarebbe un gestore di finanze. Questo approccio aveva avuto il supporto del membro della Bce Benoit Coeuré e sarebbe stato appoggiato dallo stesso Mario Draghi. Che tipo di finanze non è mai stato troppo chiarito. Le idee andavano da un sussidio di disoccupazione unico europeo a un bilancio di spesa completamente sviluppato. Da una parte, quindi, una “integrazione negativa”, dall’altra una “integrazione positiva”.

Quando si parla di un ministro europeo ci sono due visioni: quella di Schauble e quella di Macron. La prima si concentra sul concetto di “condivisione di sovranità”: vale a dire di “controllo”. La seconda su quello di “condivisione del rischio”, o di “solidarietà europea”

Le due cose sono andate in parallelo e, notava lo studio (curato da Henrik Enderlein e Jorg Haas), i tempi per discuterne seriamente non sarebbero stati maturi fino alle elezioni in Francia e Germania del 2017. Bene, i tempi sono quasi quelli giusti, perché Macron è arrivato all’Eliseo e il suo principale consigliere economico è quel Jean Pisani-Ferry che non solo viene citato nel paper, ma è anche docente di una delle due istituzioni dietro l’istituto Jacques Delors, la Hertie School of Management, sempre di Berlino. Un link franco-tedesco, insomma. Per questo motivo vale la pena di rispolverarlo ora.

Proprio l’idea, ritenuta possibile, di creare un collegamento tra le due visioni è lo scopo del paper. Si comincia con le responsabilità del ministro delle finanze europeo, poi con gli strumenti e infine con i meccanismi di controllo democratico. Ogni soluzione ha qualcosa di brillante.

Un superministro con superpoteri

La prima responsabilità è quella di creare un’autorità politica forte che salvaguardi gli interessi dell’intera Eurozona: una visione opposta a quella che parte dagli interessi dei singoli Stati. Un’autorità forte è giustificata, secondo lo studio, da due motivi: primo, le politiche da uno Stato possono avere delle “esternalità negative” sugli altri Stati, come nel caso uno facesse troppo deficit e rendesse necessario, in caso di crisi, l’intervento da parte degli altri. Secondo, se anche tutti rispettassero le regole, economie eterogenee non sarebbero stabili. Per esempio, anche differenze relativamente piccole nella crescita e inflazione sarebbero amplificate dagli effetti pro-ciclici di una politica monetaria comune. In altre parole, una volta che ci sono degli squilibri, sono difficili da rettificare dai singoli Stati, dal momento che gli aggiustamenti attraverso il tasso di cambio nominale non sarebbero possibili. Se poi le divergenze fossero grandi, ognuna minaccerebbe il funzionamento dell’Eurozona.

Da tutto questo discendono altre responsabilità e poteri. Primo, coordinare le politiche fiscali ed economiche, facendo andare nella stessa direzione strumenti che oggi esistono ma sono strabici: la procedura per deficit eccessivo, il patto di stabilità e crescita, la procedura per squilibri macroeconomici. Gli strumenti attuali sono inefficaci anche perché sono guidati da figure con peso politico relativamente scarso: il commissario europeo agli affari economici e monetari e il presidente dell‘Eurogruppo. Fondere queste due figure potrebbe far superare questi limiti e creare una voce forte nell’area euro, spingendo, anche con sanzioni (bastone), gli Stati a evitare l’emergenza delle famose “esternalità negative”. Ma l’altro lato della medaglia sarebbe quello di poter portare avanti una politica fiscale per l’area euro, che finora è stata “neutrale”: il dibattito si è concentrato su cosa dovessero fare i singoli Stati, mai su dove dovesse andare l’Eurozona nel suo complesso.

La prima responsabilità è quella di creare un’autorità politica forte che salvaguardi gli interessi dell’intera Eurozona: una visione opposta a quella che parte dagli interessi dei singoli Stati

Una seconda responsabilità-potere è quella di supervisionare e difendere politicamente il rispetto delle regole. È un concetto che ovviamente si avvicina all’idea tedesca. Una volta delineate ex ante le politiche, si tratterebbe di farle rispettare ex post. Sarebbe un potere limitato dal controllo di rappresentanti del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali e avrebbe due caratteristiche essenziali per un vero potere: la responsabilità e l’accountability, cioè la necessità di rendere conto dei risultati.

Finito? No. Un terzo potere è quello di portare avanti i negoziati, come un “broker onesto”. Lo scopo sarebbe quello di evitare situazioni come quella dei negoziati con la Grecia, che furono portati avanti in prima persona dalla Merkel. «Sarebbe la faccia dei programmi di assistenza e diverrebbe responsabile dei risultati», si legge nel paper.

E si arriva, dopo il bastone, alla carota. Il nuovo ministro dovrebbe anche “aiutare ad attutire gli shock regionali”. Vale a dire? Potrebbe facilitare i trasferimenti ai Paesi non in grado di riprendersi dalle crisi solo attraverso riforme interne. Oggi il costo di questi investimenti, necessari per mettere in pratica le riforme, ricade sui singoli Stati. Un ministro con un bilancio da gestire potrebbe invece permettere al livello europeo di supportare gli investimenti pubblici in tempi di consolidamento fiscale o per contribuire alla reazione in caso di shock esterni asimmetrici. Ci sarebbe un meccanismo di ricompensa in caso di riforme. L’ultima funzione sarebbe quella di rappresentare l’Eurozona a livello internazionale.

Il ministro dovrebbe usare il bastone ma anche la carota: potrebbe facilitare i trasferimenti ai Paesi che non in grado di riprendersi dalle crisi solo attraverso riforme interne

Il sogno del Fondo monetario europeo

Tutti questi, in realtà, rimarrebbero solo intenti se non ci fossero degli strumenti ad accompagnarli. Questi strumenti sono due: un bilancio europeo per gli investimenti e un Fondo monetario europeo.

Il bilancio europeo per gli investimenti servirebbe a mettere soldi in caso di shock specifici nei Paesi, come un terremoto o la crisi dei rifugiati (l’Italia è citata esplicitamente nel paper). Questo permetterebbe di superare il tira e molla sulla flessibilità che si sviluppa in queste occasioni e che oggi non ha alle spalle una chiara “paternità politica”. Il secondo ruolo del bilancio europeo per gli investimenti riguarda invece le riforme. Secondo lo Jacques Delors Institut, va preso atto che le riforme, se fatte seriamente, possono avere degli impatti negativi sulla crescita di breve periodo. Si tratterebbe quindi di creare dei meccanismi di “premio”: i soldi comunitari per gli investimenti verrebbero dati non in caso di circostanze estreme (come fa oggi l’Esm) ma per spalleggiare le riforme allo stato iniziale. Tutto questo, spiegano gli studiosi, avrebbe senso sia economico sia in termini di consenso politico. Anche perché per “investimenti” andrebbero considerati tanto quelli per la banda larga quanto quelli per scuole e ospedali in Paesi come la Grecia. Non solo: con gli attuali meccanismi di bilancio, le prime vittime dei tagli di bilancio sono gli investimenti (l’Italia è un caso esemplare, anche per responsabilità della classe politica), nonostante nel medio termine favoriscano lo sviluppo. Come finanziare questo bilancio? O con una tassa europea o con trasferimenti di fondi attuali, come è stato fatto per il Piano Juncker.

E si arriva all’ultimo strumento: la creazione di un Fondo Monetario Europeo. Oggi i meccanismi messi in atto in caso di crisi agiscono con una logica e una governance “ad hoc”, ma senza che sia chiaro chi debba negoziare, chi debba fare le bozze dei memorandum di intesa, dove sia previsto il controllo democratico: è tutta una serie di summit all’ultimo minuto e ultimatum. Inoltre, quando interviene la Troika, nessuno è pienamente responsabile delle decisioni tra Bce, Commissione e Fmi. Infine, ci sono parlamenti di singoli Stati, come la Germania, che hanno un potere di veto su decisioni comunitarie, come i programmi di aiuti alla Grecia. Un Fondo monetario europeo sarebbe più trasparente. Secondo il paper dello Jacques Delors Institut, questo fondo si dovrebbe finanziare tramite l’emissione di una piccola quota del debito di ciascuno Stato (pari per esempio al 10% del Pil): questo debito sarebbe garantito da tutti i membri dell’area euro e l’interesse sarebbe quindi lo stesso per tutti i partecipanti. Una sorta, insomma, di eurobond.

Lo studio prende atto che le riforme, se fatte seriamente, possono avere degli impatti negativi sulla crescita di breve periodo. Si tratterebbe quindi di creare dei meccanismi di premio: i soldi comunitari per gli investimenti verrebbero dati non in caso di circostanze estreme (come fa oggi l’Esm) ma per spalleggiare le riforme allo stato iniziale

La conclusione della proposta riguarda il controllo democratico. Questo nuovo ministro dovrebbe essere sottoposto al controllo sia del Parlamento europeo sia di membri dei singoli parlamenti nazionali, visto che nelle decisioni del Fondo monetario europeo sono coinvolti i bilanci dei singoli Stati. Una proposta un po’ contorta superata da Emmanuel Macron in campagna elettorale con la proposta di un controllo affidato a un mini-Parlamento europeo composto solo da eurodeputati degli Stati dell’Eurozona. Tutto questo è ovviamente molto sulla carta e, come ha ricordato Wolfgang Schauble in un’intervista alla Stampa giovedì 11 maggio, non sono questi tempi per cambiare i trattati. Tuttavia, avere chiaro cosa si vuole e come arrivarci è preferibile a evocare figure tanto nebulose quanto comode perché irrealizzabili.