Le ondate migratorie che partono dalle coste della Libia e arrivano su quelle italiane non accennano a diminuire. Nel 2017 sono già più di 40 mila gli arrivi via mare, un dato superiore a quello relativo agli stessi mesi del 2016, anno record con oltre 180 mila sbarchi. Il tributo di sangue che impone la rotta del Mediterraneo centrale – i morti sono già più di mille – resta a livelli altrettanto impressionanti, anche se leggermente inferiori a quelli del 2016. Gli sforzi del governo italiano, e in particolare del ministro dell’Interno Minniti, al momento non sembrano dunque aver prodotto risultati concreti.
Il motivo principale è l’assenza di un interlocutore nel Paese africano in grado di portare a compimento con successo gli accordi. L’intesa sui migranti siglata a inizio febbraio tra governo italiano e governo internazionalmente riconosciuto della Libia, facente capo a Serraj, è stata bloccata dalla Corte di Appello di Tripoli dopo nemmeno due mesi. Il processo che dovrà determinare la legittimità dell’accordo potrebbe richiedere mesi se non anni e, nel frattempo non è chiaro che ne sarà degli 800 milioni di euro in mezzi e aiuti chiesti da Serraj all’Italia per garantire il successo dell’intesa.
L’accordo di pace, poi, mediato dall’Italia tra le tribù libiche del Fezzan (il sud desertico della Libia dove finora ha regnato l’anarchia) risale a inizio aprile e prevede la creazione di una guardia di frontiera libica, sempre con l’assistenza italiana, per presidiare il confine sud del Paese. Trattandosi di un’operazione internazionale complessa, la data dell’intesa firmata a Roma è ancora troppo ravvicinata perché se ne vedano gli effetti.
L’accordo di inizio maggio tra Haftar e Serraj sarebbe, secondo gli osservatori internazionali, sbilanciato a favore del primo. L’organo collegiale che dovrebbe governare la Libia sarebbe infatti composto da loro due, più dal presidente del parlamento di Tobruk, fedele ad Haftar. Un boccone amaro per Serraj, che rischia di non essere digerito dalle milizie tripolitane che vedono in Haftar un nemico giurato
Tornando alla Tripolitania, è evidente – e la sentenza della Corte d’Appello ne è una spia – il progressivo indebolimento di Serraj. La sua capacità di controllare le schegge frammentate dello Stato libico e le milizie tripolitane, e la capacità di far applicare gli accordi che prende all’estero, si sono sempre più ridotte. Orfano della sponda americana, con l’avvicendamento alla Casa Bianca tra Obama e Trump, Serraj è diventato parte debole nel confronto col generale Haftar, sostenuto da Egitto, Emirati Arabi e Russia (oltre alla Francia, almeno in passato), che controlla la Cirenaica.
Da questa situazione geopolitica nasce l’accordo di inizio maggio tra Haftar e Serraj. Un accordo, secondo gli osservatori internazionali, sbilanciato a favore del primo. L’organo collegiale che dovrebbe governare la Libia sarebbe infatti composto da loro due, più dal presidente del parlamento di Tobruk, fedele ad Haftar. Inoltre il generale avrebbe il ruolo di comandante delle forze armate e non sarebbe sottoposto al controllo dell’autorità civile. Un boccone amaro per Serraj, che oltretutto non è detto venga digerito dalle milizie tripolitane che vedono in Haftar un nemico giurato.
L’Italia, principale sponsor internazionale dell’accordo Onu all’origine del governo Serraj, patisce il cambio di equilibri seguito al mutamento della politica estera americana e prova a riposizionarsi nella partita. Il ministro degli Esteri Alfano si è recato a Tripoli, dopo la notizia dell’accordo tra Serraj e Haftar, per dare il sostegno dell’Italia al negoziato libico. La realtà è che la migliore speranza per Roma a questo punto sta nella buona riuscita dell’accordo che, se riuscisse a pacificare il Paese, consentirebbe tra le altre cose di perfezionare le intese sul controllo del flusso migratorio.
Inoltre Roma non si presenta al tavolo delle trattative senza nessuna carta in mano. La difesa dei nostri interessi economici ed energetici in Libia, oltre che di quelli legati a sicurezza e migrazione, può essere ottenuta proprio cercando di far digerire alla regione tripolitana l’intesa firmata da Serraj. L’Italia ha ancora diverse leve e mezzi di pressione che può utilizzare in Libia, oltre a una conoscenza approfondita del Paese. Se le milizie della Tripolitania possono essere convinte – anche solo in buona parte – a favorire la pacificazione nazionale, l’Italia è nella posizione migliore per poterlo fare (e per poter poi spendere il risultato al tavolo negoziale con Russia, Egitto e altri attori).
Se tuttavia l’accordo siglato da Serraj con Haftar fosse indigeribile per le principali fazioni tripolitane, l’Italia rischierebbe di subire una marginalizzazione pericolosa per i suoi interessi nello scenario libico. E la guerra e il caos che deriverebbero da un eventuale tentativo di Haftar di portare manu militari sotto il proprio controllo la Tripolitania avrebbero probabilmente l’effetto di aggravare ulteriormente il già drammatico fenomeno migratorio.