La decisione di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi e Bahrein di interrompere le relazioni col Qatar ha un carattere strettamente geopolitico. Si tratta oltretutto di una decisione tattica, orientata al breve periodo per riportare Doha nei ranghi, e non, salvo sviluppi al momento imprevedibili, di una decisione strategica proiettata nel lungo che rompa i rapporti tra i due Stati. L’accusa di sostenere il terrorismo, rivolta al Qatar, è la traduzione nel linguaggio delle dittature mediorientali di “avere rapporti con la Fratellanza Musulmana” e inoltre – in questo caso specifico – di “non essere abbastanza entusiasti all’idea di andare allo scontro frontale con l’Iran sciita”. Ma andiamo con ordine.
L’accusa di una vicinanza, sgradita soprattutto a Riad e al Cairo, alla Fratellanza Musulmana risale all’epoca delle Primavere arabe. Dal 2011 in poi infatti Doha ha aumentato il proprio attivismo diplomatico, sostenendo fazioni legate alla Fratellanza in vari Paesi musulmani attraversati dal vento delle proteste, come Tunisia, Egitto, Libia e Siria. In un primo momento la monarchia saudita, considerata un nemico da abbattere dai Fratelli, lasciò correre – con una buona dose di realpolitik, considerato il momento storico in cui le rivolte sembravano destinate alla vittoria e in Egitto si era insediato il governo Morsi, vicino alla Fratellanza – ma pochi anni dopo, nel 2014, richiamò il piccolo vicino all’ordine.
In pochi anni infatti in Egitto era avvenuta la restaurazione del potere dei militari, con l’ascesa del generale al Sisi alla presidenza (sostenuta da Arabia Saudita ed Emirati Arabi), la Libia era sprofondata nel caos e in Siria la dittatura filo-sciita di Assad non era né caduta né prossima a cadere, grazie anche alle divisioni tra ribelli sostenuti da Riad e ribelli sostenuti da Doha. L’Arabia Saudita allora mandò un chiaro segnale al Qatar di interrompere “le ingerenze” negli affari degli Stati limitrofi – cioè di limitarsi ad assecondare le ingerenze decise dai Saud – ritirando il proprio ambasciatore, insieme a Emirati e Bahrein. Doha, preso probabilmente atto di aver perso la scommessa fatta sull’esito delle Primavere arabe, cacciò alcuni leader della Fratellanza che ospitava (e che ripararono in Turchia) facendo intendere di aver capito il messaggio. Così, dopo otto mesi di interruzione nelle relazioni diplomatiche, la frattura in seno al Consiglio di cooperazione del Golfo (l’organismo dove appunto si riuniscono gli Stati arabi del Golfo persico) fu ricomposta.
Da allora ad oggi il Qatar ha comunque preso una posizione “non allineata” rispetto al resto del Ccg su varie questioni “minori”. In Libia, ad esempio, ancora sostiene diverse componenti islamiste, alcune legate al governo Serraj, altre al precedente parlamento di Tripoli. Gli Emirati, in parte i Saud e soprattutto l’Egitto sostengono invece il generale Haftar, che controlla la Cirenaica. Altre divergenze sono poi emerse sulla Siria, dove gli interlocutori di Riad e Doha nella ribellione continuano spesso a non coincidere, e sullo stesso Yemen, dove la sanguinosa guerra condotta dai Saud contro i ribelli sciiti Houthi ha visto la partecipazione del Qatar ma non senza qualche malumore.
C’è un timore diffuso in alcuni Stati dell’area che nel lungo periodo una petrol-monarchia come quella saudita non possa prevalere nei confronti di uno Stato che ha le risorse, la collocazione geografica, la storia e il tessuto sociale dell’Iran
Nella questione palestinese Doha mantiene poi stretti legami con Hamas (vicina a sua volta alla Fratellanza e con un rapporto altalenante con Teheran, di recente tornato buono), e qui arriviamo al vero cuore dell’attuale scontro tra Paesi del Golfo. L’Arabia Saudita, tirandosi dietro Egitto e altri Paesi minori, sembra intenzionata a portare avanti un progetto strategico ambizioso e molto rischioso per contenere l’Iran sciita: portare avanti una forte alleanza con Israele. Finora i rapporti sono stati buoni, e negli ultimi anni si sono fatti ancora migliori. Ma l’idea che gira a Riad – con qualche imbeccata nei recenti incontri da parte dell’amministrazione Trump – è quella di una vera e propria alleanza, cosa che pare non dispiacere nemmeno a Tel Aviv. Il tutto ovviamente in ottica anti-iraniana (e quindi anti-Hezbollah e indirettamente anti-Hamas).
Il Qatar, che con l’Iran mantiene relazioni economiche e porta avanti una linea più dialogante, nelle ultime settimane aveva lasciato trapelare dei distinguo e non sembrava intenzionato a seguire Riad su questa strada. Non è chiaro se per timore di alienarsi le masse islamiche (su cui punta ad avere una forte influenza, anche tramite la sua tv di Stato Al Jazeera) con un’alleanza aperta con Israele, o se per paura di puntare tutto sul cavallo sbagliato nella corsa tra Saud e Iran. C’è infatti un timore diffuso in alcuni Stati dell’area che nel lungo periodo una petrol-monarchia come quella saudita non possa prevalere nei confronti di uno Stato che ha le risorse, la collocazione geografica, la storia e il tessuto sociale dell’Iran. Negli stessi Usa circolano perplessità sulla scelta di Trump di rinverdire lo scontro con Teheran, e la debolezza del presidente americano in patria – a cui le inchieste sul Russiagate pare stiano scavando la terra sotto ai piedi – aumenta lo scetticismo di chi, tra i Paesi del Golfo, ritiene poco lungimirante fomentare uno scontro totale con gli sciiti. Su questo asse di frattura si capisce perché il Bahrein – una monarchia sunnita che governa una popolazione in maggioranza sciita – si sia subito allineato con Riad, così come il governo yemenita che combatte contro i ribelli sciiti. Al contrario l’Oman e il Kuwait (che con l’Iran mantengono dei buoni rapporti e relazioni commerciali) ancora no.
Proprio l’estrema importanza della posta in gioco – ancor più alta di quanto non fosse nei primi anni del decennio – spiega forse l’estrema durezza del trattamento, per certi versi “esemplare”, che ora viene riservato al Qatar da Sauditi ed Egitto (che, ricordiamo, comprano armi americane, russe o francesi ma sempre coi soldi di Riad). A differenza del 2014 non sono state solamente interrotte le relazioni diplomatiche, ma è stata disposta anche la chiusura dei confini e la sospensione dei trasporti aerei e terrestri con Doha (l’unica frontiera terrestre della penisola è con l’Arabia Saudita). I cittadini del Qatar hanno due settimane per andarsene da Arabia Saudita, Emirati, Bahrein ed Egitto. Inoltre viene meno la partecipazione qatariota alla coalizione a guida saudita che combatte in Yemen.
Doha, considerati i rapporti di forza con gli altri Paesi arabi dell’area, probabilmente sarà costretta a cedere alla pressione di Riad, ma i tempi e i modi con cui dovesse giungere la resa daranno importanti indicazioni sull’aria che tira, e tirerà, sul Golfo. La scommessa saudita, di approfittare del momento storico con la presidenza Trump e la rinata ostilità americana verso l’Iran per fare sponda con Israele e contrastare l’espansionismo sciita, potrà sembrare più o meno azzardata a seconda di quel che avverrà nei prossimi mesi, tanto in Medio Oriente quanto negli Usa. Se le prospettive di un soffocamento dell’Iran – alla luce di come evolverà la guerra in Siria, della disponibilità europea ad assecondare la linea dura di Trump, e della stabilità stessa della presidenza Trump – dovessero rivelarsi poco credibili, Doha potrebbe cercare di resistere il più a lungo possibile in una posizione di arrocco, per poter tornare al tavolo delle trattative con una posizione più forte. Potrebbe in questo forse approfittare di una sponda turca, storicamente vicina sulla questione dell’aiuto alla Fratellanza e attualmente in buoni rapporti con Iran e Russia per via della partita siriana. Ma il numero e la complessità delle questioni coinvolte da questa crisi (dalla questione israelo-palestinese alla faida sunniti-sciiti, dalla questione turca a quella curda, dalla guerra in Siria a quella in Yemen, dalla situazione in Iraq a quella in Libano, dal futuro di Trump a quello della Ue etc.) rendono quasi impossibile qualsiasi pronostico.