Pubblichiamo un estratto tratto dall’inizio del secondo capitolo, leggermente rielaborato, dal libro “Lady Brexit: Theresa May a Downing Street” di Stefano Basilico e Gabriele Carrer, per la neonata NR Edizioni. Questo libro inaugura la collana Insiders, dedicata alla saggistica italiana della casa editrice indipendente, nata nel 2017 dal progetto #NightReview, che produce, pubblica e distribuisce titoli di saggistica.
La figlia del vicario
L’ambiente in cui è nata, cresciuta e si è formata politicamente, quando ancora di cognome faceva Brasier, ha contribuito a plasmare la figura di quella Theresa May divenuta leader conservatrice. La sua vita è stata caratterizzata fin dai primi passi da una commistione di religione, politica, famiglia e scuola. La dimensione rurale e parrocchiale in cui è cresciuta ha concorso alla costruzione della sua identità personale e politica.
Quando venne alla luce l’1 ottobre 1956 nell’ospedale di Eastbourne, nel Sud del Sussex non lontano da Brighton, in pochi avrebbero scommesso che sarebbe diventata un giorno il cinquantaquattresimo primo ministro del Regno Unito. Nel nosocomio locale la sua fama la precedeva: era la figlia del vicario, Hubert Brasier, che prestava servizio presso la struttura. Un lignaggio che avrebbe fatto immaginare ad una vita agiata per gli standard locali, in quella borghesia rurale in cui il prete, il notaio e il farmacista sono considerati istituzioni. Ma non una storia di successo.
Gli studi compiuti da Roy Stockdill, giornalista esperto di genealogia che ne ha tracciato per primo l’albero genealogico, dimostrano che le radici di Theresa May sono nella working class suburbana. Nel 1959, la famiglia si trasferì ad Enstone, non lontano da Oxford, dove il padre ottenne un nuovo incarico come vicario. Il villaggio è nel cuore del Cotswolds, non una contea ma una sorta di parco nazionale (Area of Outstanding Natural Beauty, in inglese). Un contesto in cui la vita familiare diventa centrale e in cui Theresa May, essendo figlia unica, diventa la pupilla di papà.
L’avvicinamento di Theresa alla politica avvenne quasi di nascosto: il padre doveva essere considerato neutrale dai parrocchiani e non voleva che l’attivismo della figlia gli alienasse una parte dei fedeli. May racconta di aver iniziato a frequentare i conservatori a tredici anni, ma che papà le proibì di volantinare pubblicamente per non dare adito ad accuse di partigianeria. Passò le prime campagne elettorali lontano dagli elettori, imbustando lettere nella sede locale.
Non tutti i ricordi del primo ministro sulla sua infanzia in un ambiente religioso sono positivi. Una rinuncia ad una vita «normale» solo marginalmente lamentata, in cui rigore morale e senso del dovere vengono prima dello svago. Dovere che, secondo May, si sostanzia in opere concrete. Tim Montgomerie, in un articolo per la rivista Catholic Herald scrive: «May resta una cristiana praticante, ma non sarà mai una che parla molto del suo credo religioso. Finora ha preferito che le persone sappiano della sua fede per le cose che fa piuttosto che per le sue parole».
Non tutti i ricordi del primo ministro sulla sua infanzia in un ambiente religioso sono positivi. Una rinuncia ad una vita «normale» solo marginalmente lamentata, in cui rigore morale e senso del dovere vengono prima dello svago. Dovere che, secondo May, si sostanzia in opere concrete. Tim Montgomerie, in un articolo per la rivista Catholic Herald scrive: «May resta una cristiana praticante, ma non sarà mai una che parla molto del suo credo religioso. Finora ha preferito che le persone sappiano della sua fede per le cose che fa piuttosto che per le sue parole».
L’appartenenza alla chiesa anglicana, nel Regno Unito, è anche un fatto peculiarmente nazionale. Come ha commentato Andrew Brown in un’analisi su Foreign Policy, «la Chiesa d’Inghilterra è sempre riuscita a combinare il buon senso con una sfumatura nazionalista molto forte». È forse eccessivo definire, come fa Brown, Theresa May come «una nazionalista religiosa». Tuttavia, l’anglicanesimo può offrire una chiave di analisi non scontata su alcuni eventi politici o certe caratteristiche proprie del concetto di britishness, ossia “l’essere britannici”. La chiesa anglicana è strettamente legata all’identità inglese (o scozzese) e alla sfera politica, essendo nata proprio da uno scontro istituzionale tra Londra e Roma. Secondo l’autore, la Brexit non è altro che una continuazione dell’impulso della Riforma anglicana, che promette una restaurazione delle prerogative e dei privilegi nazionali. La riforma anglicana avviata nel XVI secolo da Enrico VIII fu fondata principalmente su uno scontro politico contro Papa Clemente VII che non voleva concedergli il divorzio. Non si trattava di una semplice questione personale: il regno aveva bisogno di un erede al trono maschio e l’Inghilterra non voleva più che Roma gli dicesse cosa fare. Difficile vedere la May come un novello Enrico VIII. Eppure uno degli aspetti cruciali per comprendere la Brexit è proprio lo sforzo tutto insulare di divincolarsi da una sovranità più alta, che sia la Roma del Papa o l’Ue dei burocrati. Una frattura di cui parla anche Linda Colley, storica e studiosa dell’identità britannica, secondo cui i valori nazionali si forgiano in seno alla Riforma e proprio in opposizione al cattolicesimo visto come «altro» e rappresentato dai bellicosi dirimpettai scozzesi e francesi. Dinamiche visibili anche oggi, con sfumature differenti.
Nella geografia dei poteri di oltremanica, la parrocchia è il centro della vita cittadina. In ogni villaggio, anche nel più remoto e privo di servizi, si troveranno sempre almeno una chiesa e un pub. Sebbene oggi le chiese siano di una moltitudine di confessioni differenti e stiano sorgendo un maggior numero di moschee, le chiese anglicane sono ben diffuse e radicate sul territorio.
Se non è possibile verificare, né mettere in dubbio, la fede privata di Theresa May, il ruolo di guida che ha avuto il padre su varie comunità locali le è servito ad assorbire un impianto valoriale che parte, innanzitutto, da un senso del dovere pragmatico. Qui potrebbe trovare le sue radici quel «compassionate conservatism» (conservatorismo compassionevole) che ha messo al centro della sua azione politica.
Una politica lontana dal turboliberismo thatcheriano, più vicina alle persone sulla soglia della povertà, coniugata con un piano economico espansivo. Idee che la posizionano al centro della politica britannica, permettendole di invadere lo spazio di un Labour più “di sinistra” che la accusa di non fare abbastanza e che, coniugate con quelle sulla sovranità nazionale decisamente “di destra”, potrebbero portare ad un allargamento del campo conservatore.