I festival letterari sono una grande livella, un po’ come la morte: autori, editori, uffici stampa, giornalisti, blogger, traduttori, lettori, baristi, turisti, interessati, semplici curiosi e gente che ha sbagliato strada si ritrovano tutti nello stesso luogo, con lo stesso statuto, quello di esseri umani con abbastanza istruzione alle spalle per riuscire a leggere un libro e abbastanza caffè in corpo per non addormentarsi nell’impresa.
Anche le birre sono una grande livella, un po’ come il coma etilico: a un certo punto del giorno, o della notte, con un numero imprecisato di birre, il livello delle conversazioni si uniforma e, dopo gli improvvidi picchi mattutini sul neorealismo letterario italiano e l’ascesa del memoir all’americana, ecco che finalmente tutti tornano a parlare di cose più interessanti come la finale di Champion’s League, il late show di Marco Rossari e la birra stessa.
Ecco perché il 2, il 3 e il 4 giugno “Molte birre con…”, la rubrica a cui hanno ritirato la patente ormai da un anno, è sbarcata alla quinta edizione de La grande invasione di Ivrea, il festival letterario più bello d’Italia (a parimerito con tutti gli altri), di cui Finzioni si fregia d’essere media partner e che, in soldoni, funziona così.
Nei tre giorni di festival, siamo stati ospitati dal fichissimo Caffè Chillout, abbiamo parlato di libri e bevuto birre (buonissime) più o meno con chiunque passava di lì: lettori, librai, birrai, autori, avventori e semplici conoscenti. Lo abbiamo fatto perché pensiamo che sia proprio questo il modo migliore per coinvolgere le persone e avvicinarle alla cultura, con divertimento, convivialità e leggerezza.
E birra. Tanta birra.
Ecco un breve riassunto di tutto ciò che è successo, con l’insostituibile aiuto di Alberto Cocchi, il fotografo più letterario del mondo, o almeno del canavese.
Il birraio
Prima di tutto, facciamo un brindisi.
[Facciamo un brindisi].
Raccontami un po’ chi sei e che cosa fai qua.
Mi chiamo Fabio Acquisto, abito a Ivrea da nove anni e l’anno scorso ho aperto questo beer shop e negozio di abbigliamento e oggettistica con la mia compagna, il Caffè Chillout. Per quanto riguarda il bere, trattiamo solo birrifici e microbirrifici italiani, dalla Brianza a Roma.
Perché fino a Roma?
Perché Roma è il metro di misura della birra in Italia, è lì che si percepisce come e cosa si beve. A Roma bevevano le IPA già cinque anni fa, noi ci stiamo arrivando adesso.
E cosa bevono a Roma, adesso?
Stanno iniziando a spillare roba acida, sour, con fermentazione spontanea. Molto buona.
E fai anche la tua birra?
Io mi appoggio a due birrifici locali, creo le mie ricette e poi il mastro birraio produce la birra. Io non sono mastro birraio ma dò le indicazioni. Si fanno le serate insieme, si beve, si parla.
Diventare esperto di birra è una pratica che mi ha sempre affascinato perché per capire di birra bisogna assaggiarla, e più ne assaggi più ti ubriachi, e più ti ubriachi meno ne capisci. Sembra un cane che si morde la coda. Come fate a uscire da questo circolo vizioso?
Guarda, alla fine qualcosa viene sempre fuori: una minchiata io, una minchiata tu e arrivano le belle idee e le belle serate, che è la cosa più importante. E poi ci sono le fiere da visitare.
Immagino che il problema delle fiere sia che, dopo cinque o sei assaggi, una Heineken acquista lo stesso sapore di una birra artigianale non filtrata a doppia fermentazione naturale. Come si risolve la questione? Fa ridere che la birra abbia inscritta dentro di sé la sua stessa limitazione.
Le prime volte che andavo alle fiere, partivo brillante e bevevo 0.3 a ogni birrificio che trovavo. Al quarto birrificio, barcollante, mi dicevo: ok, adesso posso bere anche gasolio, tanto non cambia nulla. Nel tempo ho imparato a fare assaggi più modesti, soprattutto nelle fiere migliori.
Quali sono?
Roma, Milano e Rimini.
Ma parliamo, purtroppo, di libri.
Io non sono capace a leggere, non leggo.
Nel senso che ti rompi le balle?
Nel senso che mi rompo le balle. Ci ho provato, eh, più volte, ma non sono mai riuscito. Non mi piace troppo.
Percepisci l’idea per cui chi legge i libri sia meglio di chi non li legge?
Non è che la percepisco, me lo dicono proprio. Una cliente, un giorno, mi ha chiesto: tu leggi? Io le ho detto di no, e lei ha risposto: si vede.
Ma come si vede?! Perché hai la barba lunga?
Non lo so. Comunque ascolto parecchia musica, suono, faccio mille cose. Semplicemente non leggo, è una cosa più forte di me.
Allora chiudiamo questo meraviglioso scambio di battute con questa affermazione: i libri sono noiosi, le birre no.
Se però bevi tre birre, anche i libri diventano divertenti.
Insieme: Amen!
Il libraio
Mi chiamo Alessandro e faccio il libraio.
Dove?
Qui a Ivrea.
Oh, bene, sentiamo un po’. Perché fai il libraio? Ma, soprattutto, perché non smetti di farlo?
Non lo so, probabilmente perché è un lavoro che mi trasmette un po’ di adrenalina. Un senso di condivisione con gli altri. Poi in realtà io mi sono sempre sentito più lettore che libraio.
Che è una risposta super paracula.
Al contrario! Io l’ho anche sottovalutato, come lavoro; pensavo: sono un grande lettore, che cosa vuoi che sia fare il libraio? E invece non funziona così. Nella lettura tu fai il tuo percorso personale, ci arrivi attraverso la tua formazione culturale, ma tutte queste cose non riesci a trasmetterle in trenta secondi al cliente che hai davanti, anzitutto perché non sai chi hai davanti. Poi perché le domande che ti fanno sono sempre le solite.
Ma a Ivrea non vi conoscete tutti?
Sì, ma non così bene.
Dal punto di vista di un libraio, qual è la differenza tra un libro e una lavatrice?
Che forse con la lavatrice ci guadagni di più. Sfatiamo questo mito della poesia del libraio!
Sfatiamolo, questo mito!
[Applausi scroscianti dalla cittadinanza intera]
Qui bisogna fatturare! E va bene Vanni Santoni che scrive un bel libro, ma evviva la Litizzetto che ti fa guadagnare più soldi. E dio benedica Fabio Volo!
Allora parliamo di Fabio Volo dal punto di vista di un libraio.
Non è sicuramente il mio tipo di lettura, siamo due mondi paralleli, ma quello che fa è pulito e onesto. È una persona che non si è mai detta più di quello che è, scrive cose alquanto banali ma ha un suo pubblico, e non si nasconde dietro a una finta intellettualità. Nella nostra libreria indipendente, però, abbiamo lettori più raffinati.
Ti capita di mollare un libro prima di finirlo o ti senti in colpa?
All’inizio ero impanicato e dovevo per forza finirli tutti. Poi a un certo punto mi sono chiesto: perché devo usare il mio tempo per leggere una cosa brutta, quando ce ne sono tante altre interessanti?
E qual è il tuo rapporto con la rilettura?
Fondamentale. Non si può fare con tutti, ma ci sono certi autori che amo, come Roth e Wallace, e i loro libri li rileggo per capirli meglio, più a fondo.
Senza pensarci: il tuo libro preferito?
Il maestro e margherita.
Convincimi che i libri sono importanti.
Ti posso dire quali libri sono importanti, perché di certo non lo sono tutti. O, comunque, quali per me.
Sentiamo.
Devo dire la verità?
Sì, ma tanto non lo sapremo mai.
Uno è stato sicuramente l’Iliade. Poi Due di due di Andrea De Carlo. Poi non è che il libraio deve sempre essere intellettuale e sfoggiare i libri difficili che ha letto. Al liceo mi sono reso conto che con la letteratura si poteva baccagliare di brutto. La parte intellettuale viene dopo.
Ernesto
Sei di Ivrea?
Sì.
Che cosa significa il festival per Ivrea? La città è cambiata in questi cinque anni di grande invasione?
Ivrea cambia nella grande invasione, è proprio un’altra città. Se voi foste venuti qui lunedì scorso avreste visto una città diversa, molto più spenta, molto più annoiata, molto più triste. Questa è un’iniezione di vita incredibile e una grande opportunità.
Ma la gente qui leggeva anche prima oppure fanno tutti finta anche adesso perché c’è La grande invasione?
Ivrea legge, ci sono tante iniziative molto frequentate, i librai sono bravi e c’è molta scelta. Il festival è un modo per sentirsi meno soli. È soprattutto un modo per stare insieme con la scusa del libro, è un volano per la città che coinvolge tutti, anche i bambini, con esperienze non solo letterarie ma anche musicali e artistiche.
Tu che lettore sei?
Credo di essere un lettore medio.
E cosa vuol dire medio?
Dieci, dodici libri all’anno.
L’AIE si sta fregando le mani adesso, se tu sei un lettore medio. E qual è l’ultimo libro che hai letto e che ti è piaciuto?
La scuola cattolica di Albinati.
Ah, un bel mattone!
Eh, ci ho messo tanto a leggerlo.
E qual è il tuo libro preferito?
Sicuramente Moby Dick
Ora, sappiamo che leggere libri è difficile, bisogna impegnarsi. Perché allora una persona dovrebbe leggere un libro?
Per me la lettura è un viaggio, un modo per scoprirsi, per interrogarsi, per conoscere altri punti di vista. Io cerco di leggere anche libri di scrittori che non amo, perché voglio capire perché scrivono in quel modo. Poi magari li mollo a metà, mi stufo, mi viene il mal di fegato, ma andare a curiosare in un mondo che non è il mio mi interessa. È anche un fatto di crescita. Credo che la scrittura sia un modo di continuare a trasmettere e dare un contributo al mondo, e la lettura è il modo in cui quella scrittura diventa viva.
Secondo te, perché la lettura viene sempre considerata qualcosa di migliorativo?
Io non la penso così, ma c’è questa idea. Secondo me la differenza con un film, per esempio, è che in quel caso tu sei passivo, accetti le immagini che ti impongono. Mentre per Moby Dick, ognuno di noi ha immaginato Achab come voleva, e anche il momento dello scontro con la balena. Se leggi un libro, sei tu che crei l’immagine. La lettura è diversa dalle altre cose, ma non è meglio.
Daniela
Devo dire assolutamente una cosa sul cinema.
Sentiamo.
Rispetto a quello che diceva Ernesto, cioè che i libri ti permettono di immaginarti i personaggi e le scene mentre il cinema no, ecco, in realtà dipende dai film. Se sono film didascalici, tipo quelli hollywoodiani, che ti dicono sempre quello che sta per succedere, allora sono d’accordo, non c’è niente da scoprire. Ma se sono film belli, d’autore, è la tua interpretazione di quella immagine che conta, di quello sguardo. Anche un libro stupidino ti dice tutto e non ti lascia nulla all’immaginazione, perché magari descrive pari pari un personaggio, invece di parlarti di, che so, un uomo affascinante, o una donna che si muove veloce.
Che tipo di lettrice è?
Medio bassa. Vorrei leggere molto di più.
Perché non ha tempo? Alla fine, volendo, il tempo si trova sempre.
Sì, certo. Ma ho un ruolo di pensionata/nonna che si sente in dovere di far prima altre cose, altre priorità, con i nipotini, la casa, la ginnastica, il cinema, leggere tutto quello che non sono i libri.
Lei usa internet?
Poco. Preferisco il cartaceo.
Perché si dice spesso che sì, la gente legge meno libri, però con internet e Facebook e Twitter si legge comunque di più, ma si legge male e si scrive peggio.
A questo proposito, io penso che uno può usare tutti i congiuntivi giusti, anche se non legge, ma secondo me la ricchezza del linguaggio, la profondità del linguaggio che ha uno che legge è notevolmente superiore. L’italiano ha talmente tante parole e tanti sinonimi e molto spesso non li usiamo.
Quindi chi parla meglio capisce meglio il mondo?
Sicuramente sì, e il libro aiuta. E poi c’è il rapporto personale con la letteratura. Ogni libro è un viaggio, se leggi tanti libri vivi tante vite.
Qual è l’ultimo libro che ha letto?
L’ultimo di Carofiglio, mi piacciono i gialli.
E il suo libro preferito?
Cent’anni di solitudine, è stato il mio primo libro importante.
E cosa significa per lei dire che un libro è importante?
Mi ha fatto scoprire un mondo, quello della letteratura sudamericana. Ah, e poi un altro che mi ha colpito è 1984, che ho letto nel 1984, tra l’altro. Ci sono dei libri che sono importanti anche per il momento in cui li leggi. Se per esempio leggessi adesso Memorie di una signorina per bene, sicuramente non avrebbe lo stesso significato.
Enrico
Non ho sentito bene tutto quello che ha detto la signora ma volevo tornare anch’io sulla differenza tra libro e film, lettore attivo e spettatore passivo. Io ricordo degli interventi di Gianni Canova che sostiene che è assolutamente un luogo comune. In realtà lo spettatore cinematografico è molto più attivo di quanto crede. Canova per esempio citava il caso di Inland Empire di David Lynch, dove ci sono personaggi che indossano delle maschere da conigli. Lynch diceva che alla fine di questo film è stato fatto un sondaggio tra gli spettatori chiedendo quali maschere indossassero questi personaggi, ed è venuto fuori di tutto: cavalli, somari, canguri, tutti gli animali possibili. Ognuno ha visto quello che voleva vedere. E anche con film più normali, le ricerche che vengono fatte sugli spettatori mostrano che ci sono discordanze di interpretazioni molto marcate, anche sui finali.
Ma allora, secondo lei, perché c’è l’idea che chi legge libri sia meglio di chi non li legge?
Parlare di libri in generale, intanto, è generico, perché c’è libro e libro, come nel cinema. Si tratta di linguaggi diversi, e io sono sempre fermo a quello che diceva Pasolini negli anni sessanta, quando è passato dalla letteratura al cinema. Lui diceva: sto semplicemente cambiando lingua. La lettura, certo, è importante, ma i codici espressivi sono molti, e non necessariamente la scrittura è superiore.
Lei ha mai provato a scrivere qualcosa?
Sì, qualche racconto e qualche poesia.
E perché? Sentiva un’urgenza?
È stato più un esperimento, per me. Le poesia le scrivevo da ragazzo, come tutti.
E poi fa figo scrivere un libro.
È vero anche questo. Nel mio caso è stato più per mettermi in gioco, provare a scrivere una storia.
Qual è l’ultimo libro che ha letto?
L’ultimo che ho letto integralmente è stato Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. Poi in realtà io mi occupo di lettura ad alta voce, con altri volontari organizzo letture ad alta voce, e ultimamente sto leggendo molto a pezzi!
Cosa ne pensa di Stephen King?
Non ho mai letto niente di Stephen King.
Personalmente, mi dispiace. E qual è il libro della sua vita?
I fratelli Karamazov senza dubbio, un grosso impegno leggerlo tutto ma un mondo davvero incredibile. C’è tutto l’uomo, lì dentro.