“Mamma, da grande voglio fare la casalinga”. Cosa rispondeste se vostra figlia, anziché dirvi che vuole fare la ballerina o la veterinaria o l’astronauta, vi annunciasse di vedere il proprio futuro come un angelo del focolare?
Ci sono 625mila casalinghe tra i 15 e i 34 anni in Italia. 625mila giovani e giovanissime donne che si autodefiniscono tali, dichiarando all’Istat di rispettare tre fattori fondamentali: dedicarsi prevalentemente alle faccende domestiche, non avere un’occupazione (tecnicamente: non aver svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura) e non essere disoccupate, cioè attivamente in cerca di lavoro.
In tutto, in Italia, le casalinghe censite dall’Istat sono 7 milioni 338mila. Sono in calo – 518mila in meno rispetto a dieci anni fa – e la loro età media è 60 anni. Si tratta dunque di una condizione che piano piano sembra andare scomparendo, e riguardare prevalentemente le donne più mature e con basso grado di istruzione – i tre quarti delle casalinghe hanno la licenza di scuola media inferiore, quella che una volta si sarebbe detta “la terza media”.
Ovviamente i lavori domestici e di cura sono indispensabili: le case non si puliscono da sole, le cene non si cucinano da sole, i figli non si mettono a letto da soli.
Infatti, spiega l’Istat, nel 2014 sono state effettuati in Italia 71 miliardi e 353 milioni di ore di lavoro non retribuito per attività domestiche, cura di bambini, adulti e anziani della famiglia, volontariato, aiuti informali tra famiglie e spostamenti legati allo svolgimento di tali attività. Queste attività vengono svolte da tutti, uomini e donne (ma più dalle donne), che abbiano una occupazione o che non ce l’abbiano. Ovviamente, infatti, anche in una famiglia dove entrambi i genitori lavorano c’è il bagno da pulire, la spesa da fare, il letto da rifare, il bambino da andare a prendere all’asilo o la nonna da accompagnare dal medico.
Il tema sta nella ripartizione di questo lavoro, che è ancora largamente sulle spalle delle donne – che infatti di quei 71 miliardi di ore di lavoro non retribuito ne hanno svolti 50 miliardi e 694 milioni, quasi tre quarti del totale, di cui 20 miliardi e rotti svolti proprio dalle casalinghe.
Sarebbe un errore sottovalutare il fenomeno: sopratutto occorre interrogarsi su quelle 625mila casalinghe tra i 15 e i 34 anni, che ci raccontano invece uno spaccato preoccupante.
Perché queste ragazze, queste giovani donne non cercano lavoro? Il motivo principale, ci dice l’Istat, nel 73% dei casi è “familiare”. Vuol dire che c’è qualcosa, o qualcuno, che in famiglia richiede la loro presenza e cura. Un anziano? Un bambino? Fratelli più piccoli o disabili da accudire? Quale che sia la risposta, il problema è a monte: è giusto, è lungimirante, è accettabile che una giovane donna scelga di non entrare nel mondo del lavoro e di stare a casa, a occuparsi esclusivamente delle faccende domestiche, nel 2017?
Tendenzialmente no: non lo è. Bisogna dunque cercare di analizzare il fenomeno. Come prevedibile, le casalinghe under 35 sono prevalentemente residenti nelle regioni del centro-sud (300mila, oltre il 48% del totale, nel Mezzogiorno). Meno prevedibile è che in dieci anni, pur diminuendo il numero complessivo, sia aumentata la quota di casalinghe giovani al Nord (erano il 29% nel 2006, sono il 37% oggi).
Ora, è vero che la fascia di età è molto ampia (15-34 anni), e dunque va a comprendere situazioni anche molto diverse. Si potrebbe per esempio pensare che l’attività di casalinga venga scelta da un certo numero di donne come condizione temporanea, magari in occasione della nascita di uno o più figli, con l’idea di dedicarsi alla casa e alla famiglia per qualche anno, e poi rientrare nel mondo del lavoro.
Questa lettura, oltre all’insopportabile retrogusto di discriminazione di genere (perché l’Istat non fa anche un rapporto sugli uomini casalinghi? Semplice: perché sono pochissimi), si scontra però con alcuni dati.
Il primo è che l’età media in cui si fa il primo figlio in Italia è ormai piuttosto avanzata, 31,7 anni: dunque questo ragionamento si potrebbe applicare solo a una piccolissima porzione del campione di donne casalinghe fotografare dall’Istat, cioè quelle nella fascia di età 32-34. Oppure assumere che gran parte delle donne che fa figli prima dei 32 anni opti per la casalinghitudine. Inoltre il tasso di fecondità è direttamente proporzionale al tasso di occupazione: più le donne lavorano più fanno figli, e non il contrario.
Il secondo dato è che le casalinghe investono meno nella formazione: «Nel 2012 solo l’8,8% ha frequentato corsi, quota che è solo di poco più alta tra le casalinghe di 18-34 anni (12,9%)» si legge nel rapporto, «E questo non è un buon risultato perché rende più difficile l’inserimento nel mercato del lavoro delle giovani che volessero ad un certo punto della loro esistenza entrarci».
Il terzo dato è ovviamente quello occupazionale: se 57,2% è il tasso di occupazione generale rilevato in Italia nel 2106, il dato è però fortemente disomogeneo per genere – 68,5% per gli uomini, 48,1% per le donne. Per non parlare delle donne in età fertile, per le quali il tasso di occupazione diminuisce alla nascita del primo figlio e cala drasticamente a partire dal secondo. Segno che uscire dal mercato del lavoro, pensando poi di rientrarci dopo qualche anno di cura della famiglia, è una scelta molto rischiosa.
Il grande tema del fare la casalinga non è solo quello del libero arbitrio – “sto a casa per mia scelta”, “non lavoro e mi dedico alla cura della famiglia perché voglio farlo”. Il tema oggi sempre più importante, anche alla luce dell’evoluzione della società e dei nuovi orientamenti giurisprudenziali (ultimo e più importante, il pronunciamento della Cassazione in merito al diritto della moglie, in caso di divorzio, al mantenimento da parte del marito secondo il tenore di vita precedente alla separazione), è quello dell’indipendenza economica.
Fare la casalinga può essere gratificante, certo. Ma espone a un rischio enorme: quello di dover chiedere a qualcun altro (al proprio compagno, in genere) i soldi per fare qualsiasi cosa. Non avere un proprio reddito rende più fragili: le donne che non hanno una indipendenza economica sono in generale meno autonome, meno capaci di reagire in caso di soprusi o violenze, più psicologicamente succubi.
E allora bisognerebbe prendere queste 625mila giovani donne under 35 una per una, guardarle negli occhi, e chiedere loro: è davvero questo che vuoi per il tuo futuro? Dipendere da qualcun altro?
Magari qualcuna di loro, in tutta onestà, direbbe di sì, che le sta bene così, che la sua è una scelta ponderata. Ma forse molte altre proverebbero ad agire per modificare quelle condizioni familiari che le costringono in casa, e ad affrontare il mare aperto del mercato del lavoro, per conquistarsi un proprio spazio professionale e una indipendenza economica.