Tre anni e dieci giorni. Tanto tempo è servito all’Iraq e alla coalizione internazionale anti-Isis a conquistare Mosul, la capitale del Califfato. È qui che il 29 giugno 2014 al Baghdadi, che secondo voci sempre più insistenti sarebbe morto, aveva proclamato la nascita dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Ora resta un cumulo di macerie e il timore costante delle cellule dormienti dell’Isis, pronte a portare attacchi suicidi in qualunque momento e addirittura a dare battaglia per intere aree della città. Ma non è il controllo di Mosul la sfida più insidiosa che attende il futuro dell’Iraq.
E nemmeno l’eliminazione delle sacche dello Stato Islamico ancora presenti nel Paese, in particolare a ovest di Mosul e di Kirkuk, e soprattutto nella vasta zona desertica al confine con la Siria. Il rischio maggiore è che le radici profonde del terrorismo sunnita, che hanno già generato Al Qaeda in Iraq prima e l’Isis poi, vengano lasciate intatte o, peggio, innaffiate con altra violenza settaria.
Al rafforzamento dell’ Isis contribuirono in modo determinante prima il caos della guerra civile esplosa nella vicina Siria, e poi l’infiammarsi della faida tra sunniti e sciiti
La minoranza sunnita irachena, a cui apparteneva Saddam Hussein e buona parte dell’intellighenzia del suo regime, è stata il brodo di coltura di due delle più efferate organizzazioni terroristiche islamiche della storia recente. L’invasione americana e la pessima gestione successiva fomentarono per anni una violenza endemica, con decine di migliaia di morti. Dopo il ritiro nel 2011 la situazione peggiorò ulteriormente: nei due anni successivi il governo del premier espressione della maggioranza sciita del Paese, al Maliki, perseguitò alcuni leader sunniti e represse violentemente le proteste – soffiava in quel periodo il vento delle Primavere Arabe su tutto il Medio Oriente – che ne seguirono, incendiando la rabbia della minoranza.
Proprio in quel periodo iniziò a diffondersi l’Isis, nato nel frattempo dalla mente di ex ufficiali dei servizi segreti di Saddam che avevano intuito le potenzialità dello sfruttare la propaganda fanatica islamica e un’alleanza coi superstiti di Al Qaeda di al Zarkawi.
Al suo rafforzamento di quegli anni contribuirono in modo determinante prima il caos della guerra civile esplosa nella vicina Siria, e poi l’infiammarsi della faida tra sunniti e sciiti, fomentata in tutto il Medio Oriente e Nord Africa dalla contesa tra Arabia Saudita e Iran, che dura ancora adesso. Ed è nelle ricadute di questa contesa che si annida il rischio di salvare ancora una volta, se non rafforzare, le radici del terrorismo.Il governo iracheno infatti si trova con i piedi in due scarpe, molto legato agli Usa da un lato ma alleato fondamentale dell’Iran dall’altro
L’Iraq è una pedina fondamentale per Teheran. Da quando la cacciata di Saddam Hussein ha portato per via democratica al potere la maggioranza sciita del Paese, Baghdad è un anello fondamentale dell’asse che dall’Iran arriva fino al Libano e alla Siria. Per contribuire alla sua liberazione dallo Stato Islamico – che è un’organizzazione terroristica sunnita – l’Iran ha investito innumerevoli risorse, inviato propri uomini e, soprattutto, finanziato e supportato la creazione di milizie sciite in loco.
Il timore adesso è che, nel corso della liberazione di aree abitate dalla popolazione sunnita, tali milizie possano abbandonarsi a violenze settarie e ritorsioni sui civili. Se succedesse sarebbe l’ennesimo regalo al terrorismo. Ma anche se questo scenario da incubo fosse evitato, un enorme problema rimarrebbe.
Il governo iracheno infatti si trova con i piedi in due scarpe, molto legato agli Usa da un lato ma alleato fondamentale dell’Iran dall’altro. Questo stato di cose è stato relativamente meno problematico fintanto che l’amministrazione Obama cercava il negoziato con gli Ayatollah iraniani. Con Trump – che ha ripreso un atteggiamento più ostile nei confronti di Teheran – la situazione potrebbe diventare più tesa, anche se un’eccessiva pressione Usa su Baghdad rischierebbe forse di spingere l’Iraq tra le braccia di Mosca (con cui ha già legami molto stretti).
Se tuttavia si dovesse arrivare a tensioni interne in Iraq per il braccio di ferro tra Washington e Teheran, le milizie sciite legate all’Iran potrebbero essere un fattore di grave destabilizzazione. E per reazione la minoranza sunnita potrebbe essere nuovamente spinta tra le braccia delle organizzazioni terroristiche.Ulteriore elemento di complicazione dello scenario, la questione curda. A settembre si terrà un referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno. Se dovessero vincere i “sì”, tralasciando tutte le altre conseguenze con gli Stati dell’area, la situazione della minoranza araba-sunnita (sono sunniti anche i curdi) si farebbe ancora più isolata. La maggioranza sciita, specie in un periodo di odio settario disseminato dalla propaganda incrociata di Riad e Teheran, potrebbe approfittarne per regolare dispute ancora aperte e conti in sospeso, vecchi magari di decenni.
Le violenze potrebbero degenerare. Se questo dovesse succedere, un nuovo marchio del terrore (come già Al Qaeda in Iraq e Isis) potrebbe sorgere in quella che un tempo era stata “la culla della civiltà”.