Khadiga Shabbi contro Minniti: il processo kafkiano a una militante islamista che non può essere accolta né respinta

Ricordate il film “The Terminal”? Bene, solo che qui c'è una donna libica accusata di terrorismo e poi scagionata. Che non possiamo accogliere come profuga, ma nemmeno respingere, per motivi umanitari. Il ruolo del ministro Minniti e degli accordi col governo libico per limitare gli sbarchi

Sembrava solo una storia dal sapore kafkiano quella della ricercatrice libica Khadiga Shabbi, condannata per istigazione al terrorismo il 3 febbraio scorso dal tribunale di Palermo. E invece è diventata un serrato braccio di ferro fra un’islamista ora detenuta nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Fiumicino, e il Viminale. È invece destinata a diventare un caso politico perché è considerata un intralcio per il ministro Minniti che da tempo sta tessendo la sua tela per la stabilizzazione politica in Libia.

Andiamo con ordine: condannata e scarcerata grazie alla sospensione della pena di un anno e 8 mesi, nel febbraio scorso, doveva essere espulsa, ma il suo legale ha chiesto la protezione internazionale perché nel suo Paese rischia la vita. E la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale del Viminale che doveva prendere una decisone, per cavarsi dall’imbarazzante impiccio, le ha negato lo status di rifugiata poiché condannata per reati di terrorismo, ma le ha concesso un permesso di soggiorno umanitario.

E così è successo il finimondo: Minniti, che fa la spola fra Tripoli e Roma per trovare un interlocutore adatto a fermare la tratta dei migranti, ha chiesto e ottenuto la revoca del provvedimento e lei, dopo ventiquattr’ore di libertà, è stata rimandata nel Cie di Fiumicino perché ora è solo un’immigrata irregolare, senza permesso di soggiorno. Morale: non può essere espulsa perché nel suo Paese rischia la vita né le può essere concessa la protezione umanitaria richiesta e in un primo momento ottenuta dal suo legale, Michele Andreano, per la natura del suo reato di istigazione al terrorismo. E da allora il suo legale fa ricorsi su ricorsi e ha citato persino il ministro Minniti in giudizio per ottenere l’annullamento della revoca del permesso umanitario e riportala, libera, a Palermo.

Come al gioco dell’oca, Khadiga Shabbi torna allo stesso punto. A ponte Galeria per essere espulsa non si sa dove, perché in Libia non può tornare

Nessuno ne parla perché è un caso delicato, che crea un palese imbarazzo al governo nei suoi rapporti con la Libia. Facciamo un passo indietro. Ricercatrice di giorno, proselita di notte, è stata fermata nel dicembre del 2015 per le sue attività di propaganda e per la richiesta a un battaglione di miliziani dell’Is di vendicare suo nipote morto in combattimento contro le milizie del genarale Khalifa Haftar. È diventata un caso politico dopo la condanna. Khadiga Shabbi è considerata un dannato problema che nessuno sa come risolvere. I termini per trattenerla di 60 giorni però scadono il 27 luglio e sono prorogabili fino a 12 mesi. E poi? Cosa succederà dopo alla partigiana della battaglia contro il generale Khalifa Haftar con cui tutti i paesi occidentali, compreso il nostro che deve fermare gli sbarchi, sta cercando di trattare?

Il suo legale Michele Andreano ha chiesto l’annullamento della revoca del permesso per motivi umanitari e in caso di diniego porterà il caso alla Corte europea dei diritti umani. L’argomento scotta e nessuno vuole toccarlo, ma la supporter della rivoluzione islamista contro Muammar Gheddafi prima e delle milizie che hanno combattuto il generale Khalifa Haftar poi, ha creato un caso senza precedenti, chiedendo protezione internazionale allo Stato che l’ha condannata perché in Libia c’è una guerra e le milizie di Haftar non l’aspettano con un mazzo di rose in mano.

Ecco perché, secondo il Viminale «trova applicazione solo il principio di ‘non refoulement’ verso la Libia, cioè il divieto di espulsione nel paese di origine». Nessuno sa come risolvere il caso perché lei dall’Italia non si muove. E quindi viene tenuta in un limbo, dove attraverso il suo legale scatena una guerra a colpi di ricorsi. «Deve essere rimessa in libertà perché se le è stata concessa la sospensione della pena, non può essere considerata pericolosa e detenuta in un Cie per un permesso di soggiorno scaduto», osserva Andreano, che definisce la rettifica del permesso di soggiorno umanitario e tutto l’iter amministrativo fino a oggi percorso dal Viminale «maldestro, Illogico, contradditorio». Insomma, un bel rompicapo questa guerra con Minniti che non può risolvere neanche Papa Francesco a cui lei, l’islamista che ha dichiarato «di voler vivere in uno stato con un governo che applicala shari’a», si è rivolta perché a questo punto, nella confusione che ha in testa, pensa che sia meglio tornare in carcere, piuttosto di essere espulsa anche in un altro paese che non sia la Libia. A meno che il suo avvocato, nel duello con Minniti, trovi un giudice a Berlino.

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