Europa vs. Multinazionali
Secondo Antonio García Martínez –già executive di Google e Facebook– la decisione della Commissione Europea di sanzionare Google per abuso di posizione dominante non ha molto senso. La Commissione dimostra di non capire cosa significhi muoversi nel campo della tecnologia e dell’innovazione, e si espone alle critiche di quanti ritengono sia prevenuta nei confronti delle multinazionali statunitensi. Bruxelles inoltre ha fatto intendere che non è da escludere che anche l’algoritmo di ricerca di Google possa venir regolato. La Commissione entrerebbe così a gamba tesa in una questione di capitale importanza e –per il momento– di difficile comprensione.
Sempre sul Guardian però si trovano opinioni più elastiche: secondo John Naughton la Commissione ha sanzionato altre società europee in passato, sulla base delle norme sulla concorrenza. Il nodo fondamentale della questione sono le diverse concezioni dell’attività di regolamentazione. Negli Stati Uniti, l’interesse principale è la tutela dei consumatori: anche i monopoli vengono tollerati se non sfruttano la propria posizione per danneggiare i consumatori con prezzi elevati. Questo spiega –ad esempio– perché Amazon sia riuscita a prosperare fino a diventare un colosso. Nell’UE al contrario l’obiettivo dell’attività di regolamentazione è la tutela della concorrenza, con la conseguenza che le imprese dominanti non devono impedire la concorrenza e non devono abusare della propria posizione sul mercato. Se da un lato questo è pacifico, rimangono problemi di efficienza e rapidità della regolamentazione. Se l’establishment europeo ambisce a sottoporre società come Google a un effettivo controllo democratico, il processo di regolamentazione deve necessariamente essere accelerato.
Economia, regole e riforme
Su Social Europe un articolo di Cecilia Nahón e Sandra Polaski estende questo argomento al caso del G20, sostenendo che la globalizzazione e la finanziarizzazione hanno sempre generato vinti e vincitori, ma che complessivamente la quantità di ‘sconfitti’ è aumentata, in alcuni casi anche drasticamente. La conseguenza è un’impennata nella concentrazione del reddito e della ricchezza a favore del 10% della popolazione, e in particolar modo dell’1%. Questo porta alla convinzione generalizzata che l’economia globalizzata favorisca i pochi piuttosto che i molti. Il commercio non è un fine in sé, ma un mezzo per garantire un’economia più efficiente, che a sua volta è uno strumento per migliorare gli standard di vita.
Su EUROPP (LSE) Iain Begg commenta un documento della Commissione Europea sul consolidamento dell’Unione Economica e Monetaria. Secondo l’autore il paper tratteggia una strategia di riforma piuttosto cauta, e non identifica chiaramente un percorso da seguire per le prossime fasi di sviluppo dell’UEM. Begg aggiunge anche che fino a quando la necessità di questo tipo di riforme non sarà avvertita con maggiore urgenza, l’Eurozona resterà vulnerabile e soggetta a nuove crisi, che l’Unione non è in grado di affrontare.
Sempre da LSE, Adam William Chalmers e Lisa Maria Dellmuth presentano un’analisi sul rapporto tra l’andamento della spesa pubblica europea ed il sostegno all’UE stessa. Secondo gli autori esistono prove convincenti del fatto che l’UE possa trovare maggiori consensi nelle aree in cui la spesa comunitaria va incontro in modo più efficace alle necessità economiche dei cittadini. In secondo luogo, ritengono che la spesa comunitaria abbia un effetto maggiore quando è redistributiva (spesa in capitale umano, infrastrutture, etc.) rispetto ai casi di spesa distributiva (sostegno all’agricoltura, energia, etc.)
Su Social Europe John Weeks si esercita nel debunking di due fallacie argomentative molto popolari nelle discussioni su Brexit e negoziati. La prima consiste nel ritenere che la May non abbia la minima idea di come agire. Secondo Weeks, May sta seguendo fedelmente la ricetta del gruppo Economist for Free Trade (già Economists for Brexit), con la conseguenza di porre fine alla regolamentazione ambientale europea, alla tutela dei diritti dei lavoratori e agli standard sui prodotti a protezione dei consumatori. Dal momento che un esito “neoliberale” di questo tipo sarebbe altamente impopolare tra i cittadini britannici, il governo potrebbe sempre incolpare la Commissione Europea per il cattivo accordo. La seconda fallacia riguarda il fatto che l’Europa parli con una voce unica: esistono molte divisioni sia tra gli Stati Membri sia all’interno di essi. Anche in questo caso, fare finta che l’Europa sia un monolite, soprattutto sulla questione Brexit, permetterà al governo britannico di addossare all’UE le colpe di un esito negativo dei negoziati.
Traduzione dall’originale a cura di Federica Vanzulli