Nel momento storico in cui i maggiori Stati membri vogliono rilanciarne il processo di integrazione, l’Unione europea che sta emergendo dalla crisi economica, ma che ancora annaspa in quella dei migranti rischia una pericolosa frattura e est. Non nell’immediato, probabilmente. Ma nel prossimo quinquennio il piano inclinato potrebbe portare a esiti drammatici.
Il casus belli è legato alla situazione politica in Polonia. Il governo della destra nazionalista del Pis (Diritto e Giustizia) lo scorso 22 luglio ha fatto approvare al Parlamento, che controlla, una serie di leggi molto controverse sulla magistratura. A sorpresa il presidente Andrzej Duda, anch’egli del Pis, dopo le imponenti proteste della società civile non ha firmato due su tre delle leggi contestate. In particolare non è passata la legge che dava al Parlamento il potere di nomina di 15 dei 25 membri del Consiglio superiore della magistratura, e quella che dava al Guardasigilli il potere di decidere quando mandare in pensione i giudici della Corte Suprema. È rimasta invece in piedi la legge che rende il Guardasigilli l’unico responsabile per la nomina dei presidenti dei tribunali regionali e delle corti d’appello.
Il grave attacco all’indipendenza della magistratura è stato depotenziato, anche se non eliminato, e diversi timori rimangono. Il freno d’emergenza attivato all’ultimo dal presidente della Repubblica non cancella il tentativo del Parlamento e del governo polacco (entrambi targati Pis) di sbriciolare uno dei pilastri dello Stato di diritto che viene tutelato – insieme ad altri valori fondanti della democrazia – dalle norme dell’Unione europea (art. 2 del Trattato sull’Unione europea). A fronte di gravi violazioni di questi valori la Ue può reagire sospendendo, come sanzione, alcuni diritti dello Stato membro ritenuto colpevole (articolo 7 del TUE). La punizione più grave è la sospensione del diritto di voto dello Stato in seno al Consiglio, uno dei due organi legislativi dell’Ue insieme al Parlamento.
Nei confronti della Polonia era già stato agitato lo spettro delle sanzioni ex articolo 7, da ultimo – proprio all’indomani dell’approvazione della contestata riforma da parte della Camera polacca – dal vicepresidente della Commissione Ue e commissario allo Stato di diritto, l’olandese Frans Timmermans. L’intervento di Duda potrebbe aver sventato, almeno per ora, questa ipotesi. Ma con il governo del Pis, che potrebbe voler tornare a legiferare in materia, non è improbabile che l’Unione europea sia costretta nel prossimo futuro a rispolverare la minaccia.
Si tratta tuttavia di una pistola scarica. Perché le sanzioni vengano approvate è infatti necessaria l’unanimità degli Stati membri (escluso ovviamente lo Stato “imputato”) e la Polonia può contare sul sostegno generale, implicito o esplicito, di altri Paesi. L’Ungheria di Viktor Orban, anche lui accusato di aver impresso una svolta autocratica al Paese, aveva già detto chiaramente che avrebbe impedito venissero attivate le sanzioni dell’articolo 7 contro la Polonia. Una “campagna di inquisizione” della Ue, secondo il primo ministro magiaro, per spezzare il governo nazionale polacco e per portare avanti un’idea di Europa “nuova, mista, musulmanizzata”. Si sarebbe trattato di un precedente gravissimo, perché l’articolo 7 – e con esso la capacità sanzionatoria dell’Ue – può funzionare a fronte di uno Stato che violi i principi fondanti dell’Unione, ma non a fronte di due o più Stati “canaglia”.
«Il freno d’emergenza attivato all’ultimo dal presidente della Repubblica non cancella il tentativo del Parlamento e del governo polacco (entrambi targati Pis) di sbriciolare uno dei pilastri dello Stato di diritto che viene tutelato – insieme ad altri valori fondanti della democrazia – dalle norme dell’Unione europea (art. 2 del Trattato sull’Unione europea)»
Proprio sul tema dell’emergenza migratoria citato da Orban la rete di alleanze su cui può contare Varsavia si fa ancora più estesa. La supportano, oltre all’Ungheria, anche gli altri due Paesi del “gruppo Visegrad”, cioè Repubblica Ceca e Slovacchia. Di recente i quattro Paesi, ad esempio, hanno indirizzato all’Italia una lettera in cui chiedono a Roma di chiudere i propri porti ai migranti, e nei confronti di tre di loro (tutti tranne la Slovacchia) a giugno è stata aperta dalla Commissione europea una procedura di infrazione per il mancato rispetto dell’accordo sulla ripartizione dei richiedenti asilo.
Non solo. La stessa Austria – a cui pure si deve fare la tara, considerando che è in campagna elettorale in vista del voto di ottobre, con la destra moderata che vuole smarcarsi dai socialdemocratici con cui governa in coalizione per recuperare voti agli estremisti del Övp – ha espresso posizioni molto dure sul tema dei migranti minacciando, tra le altre cose, la chiusura del Brennero.
Ma, e qui si arriva al nocciolo del problema, nel caso della Polonia non è il tema dei migranti quello al centro della questione che avrebbe potuto scattare le sanzioni, e che potrebbe farle scattare un domani. È una questione di principi inderogabili per una democrazia. E che l’Unione europea sia messa in condizione di non poter punire violazioni di questo calibro, oltretutto per un calcolo di convenienza di Stati altrettanto criticabili (come l’Ungheria), appare intollerabile a molti suoi membri. In particolare a quelli che ne costituiscono il “nocciolo duro” – cioè gli Stati fondatori, più quelli guidati da una leadership fortemente europeista -, sempre più insofferenti verso gli scarti dei Paesi dell’Est che nella Ue sono gli ultimi arrivati o quasi, e in termini economici sono quelli che maggiormente beneficiano dei fondi di Bruxelles.
Si arriva così al rischio di una pericolosa frattura in Europa. I prossimi cinque anni potrebbero essere, secondo diversi osservatori, la “fase costituente” dell’Unione europea del prossimo futuro. Dopo la vittoria di Macron in Francia e in attesa della riconferma di Merkel in Germania, il motore franco-tedesco dell’integrazione europea dovrebbe rimettersi in moto. Se, come emerso drammaticamente nel caso polacco prima ancora che si concludesse, i meccanismi decisionali esistenti della Ue – che richiedono quasi sempre l’unanimità degli Stati membri per le modifiche e le decisioni più rilevanti – si rivelassero inadeguati, la discussione potrebbe concentrarsi non su come riformare l’Unione ma sul come spacchettarla. L’Est Europa (in particolare il gruppo Visegrad), percepito come una zavorra, verrebbe più o meno esplicitamente scaricato e il “nocciolo duro” procederebbe per la sua strada.
È uno scenario diverso da quello – già discusso e su cui il gruppo Visegrad ha già esercitato il proprio potere d’interdizione al momento della solenne dichiarazione di Roma di pochi mesi fa – delle “diverse velocità”, in cui tutti gli Stati membri restano nella Ue e decidono che grado di integrazione sono disposti ad accettare. È uno scenario in cui, per poter evolvere o anche solo impedire lo scempio dei suoi valori fondanti, l’Unione è costretta a mutilarsi. Le conseguenze, in termini economici, di crescita dei nazionalismi, di frizioni tra Stati e di ingerenze di attori esterni interessati (Russia e Usa principalmente, ma non solo), potrebbero essere pericolose.
La speranza è che sia sufficiente la minaccia di un simile scenario per ricondurre Paesi che alla Ue devono moltissimo, in termini di pace e benessere, al rispetto dei suoi valori fondanti. Ma se così non fosse si rischia di andare verso un’Europa divisa come non accadeva da decenni.