La Camera ha approvato in via definitiva il ddl che introduce nell’ordinamento italiano il reato di tortura. L’iter della legge è stato lungo (29 anni) ed è passato attraverso passaggi parlamentari lunghi e complessi. L’iter e l’approvazione della legge sono stati accompagnati, anche, da polemiche di varia origine. Tra l’altro il provvedimento prevede la punibilità anche per le torture che arrecano “traumi psichici”. E proprio sul concetto di “verificabilità del trauma” si appuntano le critiche di varie associazioni, tra cui Antigone.
Il tema è quello della cosidetta “Tortura bianca”. È un tipo di azione che offende nascondendosi, e soprattutto non vuole lasciare tracce riscontrabili sulla vittima. Il bianco è sinonimo di pulito e razionale, è anche un colore morale, capace di lasciare intendere che vi sia niente di biasimevole, nessuna atroce sofferenza”. Marialuisa Menegatto, psicologa, è coautrice con Adriano Zamperini di Violenza e Democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie (Mimesis) oltre che di svariati lavori sul G8 di Genova. E spiega che cos’è la “tortura bianca”: “una forma “evoluta” rispetto alla tortura sanguinaria, brutale, dove il rosso è il colore che rimanda al sangue e ai tormenti.”
Per non lasciare tracce il torturatore si affida a tecniche che “aggrediscono i sensi e non il corpo della persona, alterando la percezione del torturato, sino a procurare stati psicotici, o il Post traumatic stress disorder (Ptsd)”. La tortura agisce anche isolando la vittima, sino ad annichilire il torturato. “Pensiamo a tecniche estreme di isolamento e di deprivazione sensoriale in celle completamente bianche, dove, chi è rinchiuso, perde completamente padronanza della percezione, anche di quella cromatica. È una realtà completamente sfasata, in cui il torturato viene lasciato a tempo indeterminato. Un modo per gettare nel caos più completo la percezione della vittima.” Quindi il torturato è una persona che vive una realtà alterata. Anche temporale: “Quando le persone vengono messe in isolamento, con una luce praticamente bianca, al neon, in modo continuativo, o anche al buio, perdono completamente le coordinate temporali. E questo aggredire i sensi – prosegue Menegatto – manda letteralmente in stato confusionale le coordinate che noi abbiamo a livello temporale e sensoriale, oltre che del luogo dove si trova la persona stessa.” Tra le tecniche “pulite” più usate vi è la stress position. “L’immagine che più abbiamo visto sono le vittime di Abu Ghraib, o di Guantanamo, dove i detenuti venivano lasciati in una posizione immobile, ad esempio in ginocchio, o appoggiati a una parete per un periodo indefinito. Ecco, questa posizione, fa gravare il peso del corpo su pochi muscoli e articolazioni determinando in pochi minuti dolori e cedimento muscolare, fa completamente collassare le trasmissioni di informazioni dirette al cervello, può far svenire la persona, procurargli persino stati mentali alterati.” Tra le tecniche di deprivazione sensoriale, per esempio dentro la prigione di Bolzaneto, l’interdizione visiva, ossia, spiega Menegatto, “l’obbligo di tenere costantemente la testa china, sia all’interno delle celle sia durante i vari spostamenti, impedendo qualsiasi contatto visivo, sia con gli agenti di custodia che tra i prigionieri (si pensi, per esempio, alla correlazione con la tecnica dell’incappucciamento praticata ad Abu Ghraib)”. Tra le altre, prosegue l’esperta, il trattamento silenzioso: “il divieto assoluto di parlare, né con gli agenti di custodia (se non per rispondere a domande), né con i propri compagni di cella” e la manipolazione ambientale: “le celle erano piccole, fredde durante la notte, sovraffollate, e in alcuni momenti senza distinzione di genere. Aggressioni acustiche intense e prolungate, rumori improvvisi come porte che sbattevano e ordini impartiti urlando, producevano un senso psicologico di “stato d’assedio”. Violenze verbali, minacce di morte e sessuali, appellativi delegittimanti, inducevano emozioni negative di paura, tensione, ansia.” Infine, “l’esposizione costante alla luce artificiale delle celle privava gli organi di senso delle informazioni adeguate sul ritmo giorno/notte, indebolendo la percezione temporale.” Simili trattamenti – spiega la studiosa – puntano a modificare la percezione che le persone hanno di sé stesse e dell’ambiente circostante, “così da indurre uno stato alterato di coscienza.”
Sono tutte tecniche “senza contatto”, ma non per questo meno devastanti. Perché la tortura, spiega la psicologa, “come riconosce all’unanimità la letteratura internazionale, è la forma più estrema di sofferenza che possa verificarsi nell’esistenza di una persona”. E da cui è difficile riprendersi
Sono tutte tecniche “senza contatto”, ma non per questo meno devastanti. Perché la tortura, spiega la psicologa, “come riconosce all’unanimità la letteratura internazionale, è la forma più estrema di sofferenza che possa verificarsi nell’esistenza di una persona”. E da cui è difficile riprendersi. Chi viene a contatto con le vittime della tortura sa bene che bisogna essere molto cauti. “Gli psicologi devono stare molto attenti nel porre anche le domande, perché in alcuni frangenti, possono sembrare le domande incalzanti del proprio torturatore”. E il rischio è quello di rievocare il legame tra carnefice e vittima. È anche necessario evitare la ‘ritraumatizzazione’, aggiunge Menegatto: “ogni volta che una persona, quand’anche riesca a parlare della propria sofferenza, rischia di richiamare e quindi rivivere il trauma provato sotto tortura.” Inoltre, la vittima di tortura tende a isolarsi dal resto del mondo: “Sono molto restii a parlare della loro sofferenza, e a dialogare con qualcuno, perché poi interviene anche l’elemento dello stigma, della vergogna, e il senso di colpa”. Un senso di colpa frutto della strategia del carnefice, “che riesce a far sentire il torturato responsabile di quanto sta accadendo.”
La tortura non è mai sparita. “A livello internazionale si parla di tortura quando questa viene agita da una persona che detiene potere – si fa riferimento a un pubblico ufficiale che opera contro qualcuno nelle sue mani, e quindi c’è un’asimmetria di potere che fa in modo che chi lo detiene possa agire in maniera coercitiva pratiche ed abusi, fino alla tortura, verso chi è senza potere”. Gli attuali ordinamenti dovrebbero prevedere il reato specifico per chi detiene il potere, non può risolversi in un reato comune, “non può essere un’azione violenta tra pari”.
La tesi centrale di Violenza e democrazia, infatti, “è quella per cui nei rapporti asimmetrici di potere (in cui il potere viene assegnato a chi tradizionalmente lo detiene, es: polizia), l’uso della forza può essere legittimo e, anzi, in alcuni casi è invocato a tutela della cittadinanza. Per esempio un atto coercitivo legittimo – prosegue l’esperta – come recludere un detenuto nelle carceri, può anche andare oltre il limite imposto, diventando un “potere sregolato” che si pone al di fuori del sancito patto sociale. Quindi quell’uso coercitivo della forza può scadere in atti di violenza come, appunto, la tortura – o altre forme di trattamenti inumani e degradanti.
Ora, come si diceva all’inizio, dopo 29 anni la Camera ha approvato una legge sulla tortura ora alla Camera, ma gli esperti hanno parlato di “legge truffa”. Tralasciando qui gli aspetti giuridici, Menegatto spiega le problematiche legate agli aspetti psicologici. Per la legge, infatti, ci deve essere un “verificabile trauma psichico”. Ma, obietta la psicologa, siamo di fronte “a un dispositivo che affida alla vittima la responsabilità di dover dimostrare di aver subito un trauma”. E questo crea diversi problemi. Perché il concetto di trauma è tutt’altro che qualcosa di unico e universale e accedere alla verificabilità di un trauma è impresa delicata e piena di difficoltà.
Ad esempio, a Lorenzo Guadagnucci (una delle vittime della Diaz) i sintomi sono iniziati due anni dopo i fatti. “Quindi – si chiede Menegatto – se faccio una perizia dopo una settimana non ho una persona torturata, ma tre anni dopo sì?” E ancora. “Per un periodo posso soffrire di incubi, oppure posso aver paura di uscire di casa, e per un altro periodo ancora posso aver paura delle forze dell’ordine, o avere allucinazioni: sono tutte forme di sofferenza che, stando alla letteratura internazionale, difficilmente vanno a comporre un’istantanea specifica che dica in modo certo: quello è trauma da tortura”. E se già le perizie sulle lesioni fisiche sono tutt’altro che semplici da dimostrare (il caso Cucchi ne è una lampante dimostrazione), figuriamoci le conseguenze psichiche. Chiude Menegatto “Per l’esperienza acquisita con le vittime del G8 sappiamo quanta indicibile fatica si deve fare per parlare del proprio trauma: noi studiosi crediamo così che tale legge non faciliti le vittime, bensì innalzi delle barriere che renderanno ancora più difficile trovare il coraggio morale e la forza psicologica per denunciare le torture subite.”