Gli anni in cui lo Stato Islamico controllava quasi metà del territorio siriano sono alle spalle. Dal giugno 2014, quando nella moschea di Mosul venne proclamata la nascita del Califfato, l’organizzazione terroristica è subito un costante logoramento. A settembre 2015 è intervenuta la Russia a sostegno di Assad e, tra gli altri, contro l’Isis. Nei mesi successivi gli iracheni e i curdi siriani – supportati dagli Usa e, nel caso dei primi, anche dall’Iran – hanno avviato una massiccia controffensiva che ha portato a cingere d’assedio le due capitali dell’Isis, Raqqa e Mosul. La seconda è caduta lo scorso luglio, la prima è stata liberata dai curdi siriani circa al 50% e dovrebbe cadere nel prossimo futuro.
Ma non sono solo le capitali, cadute o cadenti, a decidere il destino dello Stato Islamico. L’Isis ha perso il controllo dello strategico confine con la Turchia, di cui sfruttava la porosità per far giungere armi, uomini e rifornimenti nei suoi territori. L’avanzata dei curdi siriani ha ripulito l’intera area di frontiera. La stessa Turchia, pur di non vedere i curdi “sigillare” il suo confine meridionale, ha invaso un pezzo di Siria – col placet di Mosca – “liberandolo” dall’Isis e, di fatto, inserendo un cuneo controllato dai suoi militari (e da ribelli a lei fedeli) tra i cantoni orienatli (Kobane e Cizre) e quello occidentale (Afrin) del Kurdistan siriano. Ora, a conferma che per Ankara sono sempre stati i curdi – e non tanto l’Isis – il nemico da combattere, il confine turco-siriano è militarizzato e sorvegliato attentamente.
La “corsa verso Deir ez Zor”, a cui si pensava avrebbero preso parte anche gli Usa fino alle recenti decisioni di Trump di chiamarsi praticamente fuori dallo scenario siriano (salvo la battaglia di Raqqa), vede ora i lealisti pro-Assad come unici partecipanti.
Il Califfato ha perso poi molti dei suoi luoghi simbolici o strategici. Dabiq, piccola cittadina a nord di Aleppo dove – secondo una profezia islamica – sarebbe avvenuto lo scontro finale tra le forze del bene e quelle del male, e che ha dato il nome alla rivista di propaganda dell’Isis, è caduta a ottobre 2016. Palmira, il meraviglioso sito archeologico vandalizzato dagli uomini di Al Baghdadi, è stato liberato per una seconda volta (dopo che era ricaduto nelle mani dell’Isis a fine 2016) da Damasco e Mosca lo scorso marzo. Al-Tanf, lo strategico valico meridionale tra Iraq e Siria, è stato liberato dall’Isis ad aprile 2017, grazie allo sforzo dei ribelli siriani “moderati” supportati da Washington. Questi ribelli ora combattono – sostenuti, anche se parrebbe sempre meno, dagli Usa – per non doverlo cedere ad Assad e alle milizie iraniane, che vorrebbero aprire qui il “corridoio sciita”, una contiguità territoriale che dall’Iran arrivi fino al Libano e al Mediterraneo, passando per Siria e Iraq.
Ora all’Isis resta in mano una vasta area desertica nel centro del Paese, una manciata di villaggi lungo l’Eufrate e Deir ez Zor, una città di oltre 200 mila abitanti situata sempre sul corso del grande fiume. L’area desertica non offre grandi possibilità di resistenza agli uomini dello Stato Islamico, e infatti i carri armati di Assad stanno macinando chilometri e sottraendo in poche settimane ampie porzioni di territorio. La “corsa verso Deir ez Zor”, a cui si pensava avrebbero preso parte anche gli Usa fino alle recenti decisioni di Trump di chiamarsi praticamente fuori dallo scenario siriano (salvo la battaglia di Raqqa), vede ora i lealisti come unici partecipanti.
Con una manovra a tenaglia stanno convergendo verso Deir ez Zor da nord le Tiger Forces – forze speciali dotate dei carri armati T-90 – con alleati, e da sud l’esercito regolare siriano (sempre con milizie alleate). Quest’ultimo ha conquistato pochi giorni fa Sukhnah, cittadina nel deserto che faceva da “tappo” sulla strada che porta a Deir ez Zor. Ora lo separano dalla città sull’Eufrate poco più di 100 chilometri. Le Tiger Forces sono invece a meno di 50 chilometri da Deir ez Zor e stanno liberando dall’Isis i tanti piccoli villaggi che incontrano lungo le sponde del fiume.
Nella città, inoltre, resiste da quattro anni all’assedio una guarnigione lealista, tenuta in vita dai lanci di armi, medicinali e viveri che Russia e regime (e, per la popolazione civile, Mezzaluna Rossa) hanno compiuto nel frattempo. La guarnigione, oltre a controllare alcune installazioni militari, controlla anche una porzione di città, in particolare i quartieri cristiani. Negli ultimi mesi ha subito alcune sconfitte e ha perso parte del territorio cittadino che controllava ma adesso, finalmente, vede “la cavalleria” all’orizzonte che dovrebbe venire a liberarla.
Deir ez Zor sarà probabilmente il luogo di morte del Califfato, e il fatto che a dare il colpo di grazia sarà stata la mano di Assad (e di Putin)
Sarà qui, con ogni probabilità, l’ultima battaglia in Siria per lo Stato Islamico come entità statale. Perse le grandi città e gran parte del proprio territorio, difficilmente l’Isis sarà in grado di continuare a esercitare il controllo. Non potrà più riscuotere tasse, non potrà imporre la sua legge, non potrà arruolare forzatamente i giovani che vivono nei suoi territori, non potrà istituire le sue scuole e via dicendo. Deir ez Zor sarà probabilmente il luogo di morte del Califfato, e il fatto che a dare il colpo di grazia sarà stata la mano di Assad (e di Putin) – che pure ha delle enormi responsabilità del dilagare di questo cancro – avrà sicuramente delle importanti ricadute propagandistiche e non solo.
Questo non vuol dire che l’Isis scomparirà, ovviamente. Resterà una temibile organizzazione terroristica, in grado di compiere attentati spettacolari in Medio Oriente e anche in Occidente. Potrà magari riconquistare temporaneamente piccole città o quartieri in Iraq e Siria, adottare tattiche di guerriglia, logorare i governi e le popolazioni, nascondersi nelle parti più isolate e desertiche dei due Paesi. Potrà, soprattutto, aspettare che le condizioni tornino nuovamente favorevoli. Perché se non verranno estirpate alla radice le cause che hanno portato alla nascita e all’espansione del Califfato, in primo luogo l’esclusione e la persecuzione della comunità sunnita irachena e la natura brutale del regime siriano alawita, il problema è destinato a ripresentarsi nuovamente in futuro.