TaccolaFinalmente gli incentivi alla formazione in azienda: questa sì che è politica industriale

Le linee guida per il 2018 del Piano Impresa 4.0 prevedono un credito di imposta sulle spese aggiuntive in formazione, dall’informatica alla produzione. Era quello che serviva, perché il “retraining” dei lavoratori è la chiave per affrontare l’automazione e l’intelligenza artificiale

Non vorremmo accodarci al filone un po’ stucchevole di “buone notizie” tanto in voga in questi giorni. Ma la lettura delle slide del Piano Nazionale Impresa 4.0, presentato martedì 19 settembre, dà l’impressione che per una volta ci sia una corrispondenza tra le esigenze delle imprese e dei lavoratori e le policy messe in campo. Per essere chiari: non si parla neanche una volta di bonus. Come quello da 500 euro per i professori, finito per il 77% in smartphone e tablet e solo per un deprimente 6% in spese per la formazione. Una pagina della incentivazione del governo che vorremmo vedere superare. Il nuovo Piano Nazionale Impresa 4.0 parla invece di incentivi agli investimenti, come l’iperammortamento e il superammortamento varati nel precedente Piano Industria 4.0 e che dei risultati li hanno avuti. Ma soprattutto fa un passo avanti a lungo atteso: considera alla stregua degli investimenti da finanziare le spese in formazione, partendo da un obiettivo chiaro: «gestire il rischio di disoccupazione tecnologica e massimizzare le nuove opportunità lavorative legate alla quarta rivoluzione industriale, sviluppando nuove competenze digitali».

Perché il tema è così importante? Perché non c‘è analisi sul futuro del lavoro che non giunga a una conclusione semplice: le nuove tecnologie, come l’applicazione nelle imprese dell’intelligenza artificiale (di recente abbiamo parlato di alcuni esempi concreti) o i progressi nelle tecnologie dell’automazione (sistemi di programmazione, visione e presa sempre più evoluti), non porteranno via necessariamente il lavoro ma porranno i presupposti per la creazione di nuovi lavori. A patto, naturalmente, che ci siano persone pronte a occuparsi delle nuove mansioni. O meglio: le persone ci saranno ma bisognerà vedere se saranno qui o altrove, in posti che l’antifona l’hanno capita da tempo come l’India, la Cinao la Corea del Sud. Gli allarmi sono stati suonati da tanti leader e influencer, da Barack Obama a Bill Gates. Emmanuel Macron nel programma elettorale fece una mossa audace promettendo 15 miliardi di investimenti in formazione. Angela Merkel ne ha fatto uno dei punti centrali della propria campagna elettorale. In Italia eravamo rimasti solo alle parole nei convegni, affiancate dalle prese di posizione via via più convinte degli industriali e da quelle da subito incalzanti del centro studi Adapt (con Michele Tiraboschi e Francesco Seghezzi) e di sindacalisti come Marco Bentivogli della Fim-Cisl. Fino a che la legge di Bilancio non sarà varata saremo anche qui nel campo delle promesse. Ma almeno c’è un piano con le firme congiunte dei ministri Calenda (Mise), Fedeli (Miur) e Poletti (Lavoro).

A differenza del piano Industria 4.0 dello scorso anno, il nuovo piano Impresa 4.0 considera alla stregua degli investimenti da finanziare le spese in formazione, partendo da un obiettivo chiaro: «gestire il rischio di disoccupazione tecnologica e massimizzare le nuove opportunità lavorative legate alla quarta rivoluzione industriale, sviluppando nuove competenze digitali»

Nel piano, su 30 slide una metà buona sono dedicate alle competenze. La misura nuova più significativa è quella del credito di imposta per la formazione 4.0. Il meccanismo non è semplicissimo. Bisogna partire dal principio della spesa incrementale: se nel triennio 2015-2017 ho speso in media ogni anno 100 euro (considerati tutti i tipi di formazione), per accedere al credito di imposta devo aver avuto nel 2018 spese per almeno 101 euro. Ora, le spese di formazione incentivate sono quelle relative a tre ambiti: vendita e marketing; informatica; tecniche e tecnologie di produzione, purché i corsi di formazione abbiano avuto il focus su almeno una tecnologia riconducibile all’Industria 4.0. Qual è la parte incentivata? Se nel 2017 per questi tipi di corsi appena menzionati ho speso 30 e nel 2018 ho speso 70, il credito di imposta sarà sulla differenza, ovvero su 40 euro. Ricapitolando: come formazione totale non posso scendere sotto il livello dell’anno precedente ma tanto più la nuova spesa per la formazione sia focalizzata sull’Industria 4.0, tanto maggiore sarà il beneficio fiscale.

Il concetto è mutuato da quello per le spese in ricerca e sviluppo, già previste dal Piano Industria 4.0 dell’anno scorso (vedremo dopo come è andata). Di certo è una priorità perché, come mostrato nelle slide, la partecipazione di lavoratori tra i 24 e i 65 anni a corsi di formazione in Italia è sotto la media Ue e distantissima dai livelli dei soliti campioni scandinavi ma anche Francia, Regno Unito e Francia. È uno dei due problemi italiani della formazione, essendo l’altro rappresentato dallo stato precario dei Centri per l’impiego e del sostanziale impasse che interessa l’Agenzia nazionale per le politiche attive e del lavoro (Anpal) dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

La formazione professionale è una priorità, se non un’emergenza: la partecipazione di lavoratori tra i 24 e i 65 anni a corsi di formazione in Italia è sotto la media Ue e distantissima dai livelli dei soliti campioni scandinavi ma anche Francia, Regno Unito e Francia

Le altre misure per l’aumento delle competenze sono relative soprattutto al ministero dell’Istruzione. C’è l’obiettivo di raddoppiare entro il 2020 il numero di studenti degli Its, gli istituti tecnici superiori che garantiscono un lavoro all’82% degli iscritti a livello nazionale, con punte del 96% in alcune realtà. Obiettivo allo stesso tempo ambizioso e minimo considerato che i nostri 7.600 studenti sono un centesimo degli equivalenti 760mila tedeschi.

C’è poi l’impegno alla creazione di nuove lauree professionalizzanti triennali. Un percorso che dovrebbe facilitare il raccordo con il mondo del lavoro. La domanda, aperta, è come evitare che si creino delle sovrapposizioni con gli stessi Its.

Altre misure sono quelle elencate nella slide qui sotto, tra cui spiccano il Piano nazionale per la scuola digitale, l’alternanza scuola-lavoro e l’impegno a stanziare risorse per 700 dottorati nell’anno accademico 2017/2018; tra gli obiettivi dell’ultimo punto c’è quello di sviluppare programmi congiunti tra università e imprese sul tema dell’industria 4.0. Per rimanere nello stesso ambito c’è l’impegno a incrementare l’apprendistato duale. Finora, va detto, tra le varie tipologie di apprendistato quello di alta formazione e ricerca è stato utilizzato pochissimo.

Tra le misure previste c’è l’obiettivo di raddoppiare entro il 2020 il numero di studenti degli Its, gli istituti tecnici superiori che garantiscono un lavoro all’82% degli iscritti a livello nazionale, con punte del 96% in alcune realtà. Obiettivo allo stesso tempo ambizioso e minimo considerato che i nostri 7.600 studenti sono un centesimo degli equivalenti 760mila tedeschi

Fatti gli annunci, bisognerà verificare due cose: primo, quanto davvero entrerà nella legge di Bilancio 2018; le parole del ministro dell’Economia e Finanze Pier Carlo Padoan sui cordoni della borsa molto stretti sono sembrati delle mani poste molto in avanti. Secondo: verificare i risultati dopo un anno.

Su questo fronte, quello dell’accountability, va riconosciuto al ministro dello Sviluppo Carlo Calenda di aver rispettto l’impegno che si era preso alla presentazione del Piano Industria 4.0, nella primavera del 2016: ossia quello di mostrare i risultati degli interventi. La prima parte delle slide del nuovo piano sono dedicate proprio ai risultati. Ci sono quelli nettamente positivi sugli ordinativi dei “macchinari e altri apparecchi” (+11,6% nel primo semestre in confronto allo stesso periodo del 2016) e delle “apparecchiature elettriche ed elettroniche” (+10,7%), ossia quelle che hanno beneficiato della misura dell’iperammortamento. Ci sono quelli più interpretabili, come quelli sulla spesa in ricerca e sviluppo: la crescita media della spesa è cresciuta in media tra il 10 e il 15 per cento. Su 24mila imprese censite, 11.300 hanno dichiarato spese in R&S in aumento, e di queste 4.500 nel 2016 non avevano speso nulla. Tra chi ha la spesa in aumento, l’80% ritiene utile o molto utile le misure. In un bilancio quindi positio, sono tuttavia molto poche le società che hanno incrementato la spesa più del 15 per cento.


Il governo, attraverso le sue slide, riconosce anche quando le cose sono andate male: la crescita del 2% degli investimenti in early stage (nelle startup) è considerata sotto le attese, anche perché gli strumenti messi in campo sono stati molti: incentivi agli investimenti in capitale di rischio, la possibilità di cedere le perdite delle startup a società sponsor, le misure per l’equity crowdfunding e lo “startup visa”. Conseguentemente ci sarà un «de-finanziamento delle misure che non hanno funzionato».

Così come non viene nascosto il grave ritardo sul fronte dei “competence center”, quelle strutture presso le università che dovrebbero fare da consulenza alle imprese, soprattutto a quelle più piccole. L’approvazione del decreto ministeriale è in ritardo e l’apertura del bando è prevista entro la fine del 2017.

Il governo riconosce che su almeno due fronti i risultati sono stati deludenti: gli investimenti nelle startup e la creazione dei competence center, che dovevano servire a fornire consulenza alle Pmi sulle potenzialità dell’Industria 4.0 e per i quali si attende ancora il decreto ministeriale

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