La crisi dell’egemonia musicale “bianca” arriva da lontano. E arriva là dove tutto è cominciato, per l’uomo che più di tutti se ne è reso conto e, inconsapevolmente, fatto carico. Era il 2002 quando usciva l’oscuro 12 pollici marchiato DFA Records Losing My Edge facendo esplodere la figura di James Murphy – produttore e nerd musicale terminale – e gli LCD Soundsystem, il suo progetto destinato a diventare di lì a poco il luogo simbolico dello zeitgeist degli anni Zero. Losing My Edge, un inno autocommiserante sugli ex fighi che invecchiano e «perdono terreno» in favore dei giovani con ascolti più alla moda e più in grado di “dettare l’agenda”, decreta la crisi dell’hipsterdome newyorchese che verrà poi teorizzata nel 2010 da Mark Grief nel suo saggio What was the hipster?. Il momento fondante arriva grazie a una diagnosi in qualche modo “finale”. «I hear that you and your band have sold guitars and bought turntables/I hear that you and your band have sold turntables and bought guitars». Che fatica essere fichi. L’uomo bianco musicale perde terreno ma riesce a costruire attraverso un frullato enciclopedico e metatestuale un funerale perfetto, un lungo addio capace di ragionare sull’ininfluenza, sull’incapacità, sull’atomizzazione e la solitudine sia dal punto di vista musicale, sia dal punto di vista lirico.
L’aspetto lirico non lo considera mai nessuno. Abituati come siamo a lodare James Murphy per la sua cultura musicale enciclopedica e la sua capacità di ragionare sull’angoscia dell’influenza per tirare fuori affreschi che sono sostanzialmente mondi in conflitto che cercano istericamente e disperatamente di essere qualcosa al tempo stesso rispettoso del passato, capace di raccontare il presente e con l’ambizione di immaginare il futuro. E però James Murphy è anche la persona capace di scrivere quella che Pitchfork ha definito la canzone del millennio, All My Friends (2007), in cui si leggono frasi come: «And with a face like a dad and a laughable stand/You can sleep on the plane or review what you said/When you’re drunk and the kids leave impossible tasks/You think over and over, “hey, I’m finally dead”». Un lungo funerale, una lunga analisi della sconfitta che termina nel glorioso concerto conclusivo al Madison Square Garden del 2011. This Is Happening. L’indie kid si è fatto grande e glorifica la sua stessa narrazione con un colpo di teatro in cui rendendosi conto della propria importanza, l’unica cosa giusta da fare è prendersi una pausa.
Fino a oggi. O meglio, fino a ieri. Perché American Dream esce in questi giorni del 2017, ma gli LCD Soundsystem preparano il terreno da almeno due anni. E quando l’estate scorsa James Murphy ha rimesso in piedi la baracca e girato i festival di tutto il mondo quegli stessi ragazzini che nel 2002 ridacchiavano perché se una generazione stava perdendo terreno, un’altra era pronta a prendersi il giusto spazio, erano lì pronti a celebrare il loro idolo. Ma a quella celebrazione avevano tutti qualche capello bianco in più, qualche esperienza musicale fallita, un paio di divorzi e licenziamenti alle spalle. In quel 2017 ci siamo ritrovati tutti un po’ più grandi, un po’ più disillusi, un po’ più parte di un ciclo inesorabile e crudele in cui «that you know is more relevant than everybody that I know». Siamo passati dall’altra parte, insomma. We are losing our edge.
Se la musica bianca fatta da bianchi ha perso terreno forse è anche per questa sua ossessione per i luoghi da cui arriva e proviene e non per quelli in cui vuole andare e che vuole costruire
Pitchfork ha definito American Dream un disco ossessionato dall’idea di “fine”. In effetti ha senso anche in relazione a tutta la vicenda LCD Soundsystem. È vero, dentro ci sono tutti quei nomi musicali che sono stati citati nelle recensioni (non faccio l’elenco, lo conoscete. Anzi, dite un nome e sicuramente lo troverete), ma è veramente importante? Forse il giochino della filiera lascia un po’ il tempo che trova. Se la musica bianca fatta da bianchi – anche se venata da fortissime dosi black, come James Murphy ha sempre voluto – ha perso terreno forse è anche per questa sua ossessione per i luoghi da cui arriva e proviene e non per quelli in cui vuole andare e che vuole costruire. E questa fine viene sviscerata in dieci canzoni che, dall’elegiaca Oh Baby fino alla malinconica e “albeggiante” Black Screen (l’inizio del giorno ma la fine di una lunga notte vissuta fino a quando la musica è finita), raccontano esattamente cosa vuol dire aver vissuto questi quindici anni cercando di tenere fede al “piano”, all’idea ed essersi ritrovati con… poco: «I’ve just got nothing left to say/I’m in no place to get it right/And I’m not dangerous now/The way I used to be once» (Change Yr Mind).
C’è un momento in Other Voices in cui prende la parola Nancy Whang, tastierista, per dire: «This is what’s happening and it’s freaking you out/I’ve heard it, heard it/And it sounds like the nineties/Who can you trust/And who are your friends/Who is impossible/And who is the enemy/These are the halls that we’re presently haunting/And these are the people that we currently haunt/Push back the walls/Push back the calendar/We’ve got, we’ve got friends who are calling us home». Se guardate bene, c’è tutto. L’ossessione per il passato e la necessità di fare i conti con la nostalgia; usarla non come consolazione ma come momento per superare l’empasse; le presenze spettrali, le tracce di un passato che ci ostiniamo a voler tenere vivo mentre dovremmo – forse, semplicemente – lasciarlo andare via. Ed è forse questo il motivo fondamentale per cui American Dream sarà sì un disco ossessionato dalla fine, ma è soprattutto un disco che da questa fine cerca di tirar fuori qualcosa capace di raccontare cosa sta succedendo. Anche solo nella nostra micro-nicchia in crisi di ascoltatori bianchi occidentali in crisi sospesi tra risentimento, angoscia e disillusione esistenziale e politica che hanno finalmente qualcosa di significativo da cantare: «I used to dance alone of my own volition/I used to wait all night for the rock transmissions/So where’d you go/You led me far away/And let me go/Let me go» (I Used To).