C’è imbarazzo nella politica italiana di fronte a quello che sta succedendo in Catalogna. Non solo per le immagini dello scontro istituzionale, della polizia, dei feriti, delle barricate. Queste imbarazzano chiunque creda nei valori della democrazia. La politica italiana ha difficoltà a giudicare quello che avviene in Catalogna soprattutto perché rappresenta un Paese in cui le diversità territoriali sono sempre state fonte di ricchezza ma anche di ritorsioni. L’Italia dei Comuni, delle lingue locali, delle Regioni che si sentono dei piccoli Stati non ha nulla da invidiare, in questo, alla Spagna. E ogni pronunciamento su questioni indipendentiste rischia, dunque, di essere giocoforza letto alla luce delle piccole convenienze.
Sarà per questo che i due referendum consultivi che domenica 22 ottobre si terranno in Lombardia e in Veneto per una maggiore autonomia sono stati finora vissuti come una partita locale, come lo sfizio di alcuni partiti in vista delle prossime scadenze elettorali. Sono due referendum ‘deboli’. Perché, appunto, sono consultivi: il giorno dopo il voto i lombardi e i veneti non troveranno nulla di cambiato nelle loro vite. Perché non sfidano l’ordine costituito: i due quesiti sono legittimati dall’articolo 116 della Costituzione italiana. E perché, in fondo, non c’è stata in Lombardia e in Veneto quella spinta popolare nelle strade e nelle piazze che si sta vedendo in Catalogna.
Una piccola guida per orientarsi sul voto del 22 ottobre è già pubblicata qui. Ma il clamore della vicenda catalana impone qualche riflessione in più.
Il primo punto da fissare è questo: i referendum della Lombardia e del Veneto sono una cosa diversa, molto diversa dal referendum che ha scatenato la crisi istituzionale fra Barcellona e Madrid. Le due Regioni italiane – con la spinta della Lega, i voti del centrodestra e il sostegno determinante del Movimento 5 Stelle – chiedono che lo Stato, in base all’articolo 116 della Costituzione, affidi loro una serie di materie di competenza in più fra quelle elencate nell’articolo 117. Nessuna indipendenza. Lombardia e Veneto vogliono tenersi più soldi per sé. E anche le questioni identitarie contano poco o nulla rispetto al peso che hanno in Catalogna. E’ quasi scontato, visto il vasto consenso politico, che i Sì prevalgano, il 22 ottobre. Persino nel centrosinistra – malgrado Pd, Mdp, Insieme ufficialmente sostengano la linea della inutilità dei referendum, ammiccando all’astensione – i sindaci delle grandi città si sono schierati a favore dell’autonomia, a partire da quello di Milano. Ecco perché l’importanza della sfida delle due Regioni sarà misurata dall’affluenza. Più o meno votanti decideranno se le consultazioni convocate dai governatori Roberto Maroni e Luca Zaia saranno state un flop o un successo storico.
Dunque, Lombardia e Veneto non sono la Catalogna. Non lo sono più. Forse non lo sono mai stati. Ma una volta chiarito questo, è sempre bene non sottovalutare il voto del 22 ottobre. Perché il giorno dopo non cambierà nulla è vero. Ma quando i cittadini vengono interpellati (lo si è visto già con la Brexit) è difficile poi ignorarli
Il secondo punto da fissare è legato alla storia italiana: se mai, al Nord, c’è stata una fase indipendentista simile a quella che sta vivendo la Catalogna, questa fase si è già conclusa. La Lega “rivoluzionaria, secessionista”di Umberto Bossi è finita nel 2001 con la Lega “riformista al governo con Berlusconi” (per usare le parole dello stesso Maroni). Ma anche quest’ultima è stata soppiantata da una nuova fase: da una parte la leadership di Matteo Salvini che cerca voti a livello nazionale, dall’altra la Lega dei governatori e degli amministratori locali che cerca di arrivare al federalismo interpellando finalmente il popolo del Nord. Non è, dunque, più una fase di rottura. Anche perché assieme alla Lega, in maniera meno radicata, c’è un altro protagonista della scena politica che cerca di far leva sulle appartenenze locali e di conquistare spazio nel Nord finora ostile: il Movimento 5 Stelle. Che non a caso ha usato i suoi voti per poter consentire i due referendum ma a patto di renderli più autonomisti possibili, togliendo ogni riferimento all’indipendentismo. Intorno a Lega e M5S (che fanno campagne distinte con ragioni distinte) regna l’incertezza. Il centrodestra sostiene il Sì, ma non in modo univoco: Fratelli d’Italia per esempio considera i due referendum come una cambiale da pagare agli alleati del Nord, nulla più. Del centrosinistra diviso si è invece già detto.
Dunque, Lombardia e Veneto non sono la Catalogna. Non lo sono più. Forse non lo sono mai stati. Ma una volta chiarito questo, è sempre bene non sottovalutare il voto del 22 ottobre. Perché il giorno dopo non cambierà nulla è vero. Ma quando i cittadini vengono interpellati (lo si è visto già con la Brexit) è difficile poi ignorarli. Potrà succedere che in Veneto votino più elettori che in Lombardia. Potrà anche succedere che la gente non creda più al mito del federalismo e diserti in massa le urne. Potrà persino succedere che, invece, un successo elettorale spinga altre Regioni italiane a intraprendere la stessa strada. Effetto domino. Potrà succedere tutto. Ma è bene non sottovalutare niente.
@ilbrontolo