I ricercatori precari d’Italia, così il Paese rinuncia a investire nel nostro futuro

Solo al Cnr, maggior ente pubblico di ricerca, il 40% dei dipendenti è precario. Personale altamente specializzato che studia biomedicina, nanotecnologie, cambiamenti climatici… E poi ci lamentiamo dei cervelli in fuga. Ora c'è la possibilità di stabilizzarli, la politica saprà cogliere la sfida?

Andrea ha trentatré anni e si occupa di comete. È un ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica, una delle nostre eccellenze scientifiche. Qui si studiano i pianeti e si progettano tecnologie e strumentazioni per l’osservazione del cosmo. Andrea è un precario, in attesa di stabilizzazione dal 2008. Elenio invece si occupa di fisica atmosferica ed eventi meteorologici estremi. In un Paese ad alto rischio idrogeologico come il nostro, i suoi studi sono fondamentali. Ricercatore dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr, è precario anche lui. Da otto anni. E poi c’è Katia, ricercatrice presso l’Istituto di Cristallografia del Cnr di Monterotondo. Progetta biosensori per il rilevamento di inquinanti chimici e microbiologici nell’ambiente. Anche lei aspetta da anni di vedere riconosciute le sue competenze. Ricerca e innovazione non sono solo numeri, ma storie, volti, persone. Alcune si sono date appuntamento ieri per manifestare davanti al ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Sono i cervelli che all’estero molti ci invidiano, ma non sappiamo valorizzare. Prendendo come riferimento il solo Consiglio nazionale delle ricerche, il personale precario conta più di quattromila unità. Il 40 per cento del totale. Entrati da giovanissimi – spesso dopo aver conseguito master e dottorati – oggi molti di loro sono quarantenni iperspecializzati. Grandi responsabilità, altissima professionalità, ma nessuna stabilizzazione. Circa 1.500 dipendenti lavorano con contratti a tempo determinato. Ma sono almeno 3mila i rapporti di lavoro parasubordinato, tra assegni di ricerca e contratti di collaborazione. Senza scadere nella retorica, sono loro che rappresentano il futuro del Paese. Ricercatori impegnati in campi strategici per l’innovazione e la competitività: nanotecnologie, biomedicina, analisi dei cambiamenti climatici e avanzati sistemi di monitoraggio del territorio e delle acque. Eccellenze spesso mortificate dall’assenza di certezze.

Solo al Consiglio nazionale delle ricerche il personale precario conta più di quattromila unità. Il 40 per cento del totale. Contratti a tempo determinato, assegni di ricerca, collaborazioni. Hanno grandi responsabilità, un’altissima professionalità, ma nessuna stabilizzazione. Sono i cervelli che all’estero ci invidiano, ma non sappiamo valorizzare

Teresa Colombo è una bioinformatica. Si occupa di studiare campioni tumorali con tecniche di sequenziamento massivo di nuova generazione. Anche lei in attesa di un contratto, fa parte del coordinamento precari uniti del Cnr. Un gruppo nato un anno fa, senza alcun legame con la politica, composto da ricercatori e personale amministrativo. Sono venuti davanti al ministero per denunciare le anomalie del principale ente pubblico di ricerca italiano. Una realtà costituita in buona parte da precari, che pure contribuiscono ad accrescerne il prestigio «con attività di indiscusso valore scientifico ed economico». La competitività del Paese passa anche da loro, eppure vivono quotidianamente nell’incertezza. I contratti riconfermati ogni semestre, a volte anche meno. «Spesso lavoriamo fino all’ultimo giorno senza sapere se ci sarà il rinnovo» racconta Teresa. Certo, i tempi sono cambiati. Ormai nessuno può contare su un posto fisso per tutta la vita. «Ma non si può neppure continuare a fare ricerca senza un orizzonte sicuro. Così è impossibile progettare il proprio lavoro, tantomeno mettere su famiglia».

Inevitabilmente molti sono costretti a lasciare l’Italia. La famosa fuga dei cervelli. «Valuto continuamente l’ipotesi di trasferirmi all’estero» racconta Andrea, ricercatore con la testa tra le stelle, specializzato in asteroidi e comete. Difficile dargli torto. All’Istituto nazionale di astrofisica, raccontano alcuni suoi colleghi, è precario il 30 per cento del personale. Molti di loro aspettano di essere stabilizzati da più di dieci anni. Giovanna all’estero ci è andata. Ha trascorso un anno a Lubiana, in un centro di ricerca all’avanguardia. Poi però ha preferito tornare a casa. Oggi ha trentotto anni ed è precaria da undici, il contratto a tempo determinato le scade tra meno di due mesi. Anche lei è una ricercatrice del Cnr, lavora all’Istituto di chimica della materia condensata e tecnologiche per l’energia. Un settore di nicchia, che pure riguarda la vita quotidiana di tutti. I condensatori ceramici, di cui si occupa, sono presenti a decine negli smartphone di ultima generazione. Laureata in fisica, Giovanna racconta che molti colleghi di università hanno già lasciato l’Italia. Alcuni sono andati in Francia, altri in Svizzera, molti negli Stati Uniti. Eppure c’è chi non si arrende. «È vero – continua Teresa – ormai tutti dicono che se si vuole fare ricerca di alto livello bisogna andare fuori. Ma perché?».

Inevitabilmente molti sono costretti a lasciare l’Italia. La famosa fuga dei cervelli. «Valuto continuamente l’ipotesi di trasferirmi all’estero» racconta Andrea, ricercatore con la testa tra le stelle, specializzato in asteroidi e comete. Difficile dargli torto. All’Istituto nazionale di astrofisica, raccontano alcuni suoi colleghi, è precario il 30 per cento del personale

A pagare il conto dell’esodo, paradossalmente, è proprio il nostro Paese. Ogni ricercatore che lascia l’Italia rappresenta un patrimonio professionale che perdiamo. E spesso dopo lunghi anni di formazione. Ecco perché l’abuso del precariato, in questo settore, è soprattutto una scelta miope. Le storie sono diverse, il destino simile per tutti. A viale Trastevere, mentre finalmente una delegazione dei manifestanti viene convocata al ministero, si affollano i ricercatori. Ci sono i rappresentanti dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e dell’Ingv. La maggior parte, però, è del Consiglio nazionale delle ricerche. Claudia e Maria Antonietta lavorano a Pisa, sono due matematiche. Precarie, rispettivamente, da 8 e 11 anni. Si occupano di algoritmi per l’elaborazione digitale delle immagini. Danilo ha 38 anni ed è in attesa di stabilizzazione da un decennio. Subito dopo il dottorato è entrato all’Insean, istituto di ricerca nel settore dell’ingegneria navale e marittima. Un’altra realtà italiana all’avanguardia, conosciuta a livello internazionale. Dopo tanta attesa, adesso per tutti qualcosa potrebbe finalmente cambiare. La riforma Madia apre nuovi scenari. L’articolo 20 del decreto legislativo 75/2017 che riguarda il “superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni” autorizza nuove assunzioni. Una novità che riguarda la maggior parte dei dipendenti a tempo determinato, ma apre anche a procedure concorsuali con alcuni posti riservati per i lavoratori parasubordinati.

Le speranze dei ricercatori precari dipendono però da un adeguato piano di finanziamento. Non si parla di miliardi: è stato calcolato che per il Cnr servirebbero circa 120 milioni di euro. Un’operazione dal sicuro ritorno economico, peraltro. In una lettera inviata alla ministra Valeria Fedeli, i ricercatori citano proprio il presidente del Cnr Massimo Inguscio, che lo scorso giugno, durante un’assemblea del personale, aveva spiegato: «L’assunzione delle migliaia di lavoratori altamente specializzati come quelli della Ricerca non può e non deve essere più considerata come un costo, ma piuttosto come il principale investimento per garantire la competitività del nostro Paese in Europa e nel mondo». Sembra d’accordo anche il Miur, che durante l’incontro con la delegazione dei manifestanti ha assicurato, ferma restando l’autonomia degli enti di ricerca, il proprio impegno per chiedere al Tesoro lo stanziamento di fondi finalizzati e vincolati alla stabilizzazione dei precari. La sfida è lanciata, i risultati sono attesi nella prossima legge di Bilancio.

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