Il bastone. Tutto è sballato fin dalla copertina. Avete presente la ‘coperta’ dei dischi di Francesco Guccini, “un mito per generazioni di italiani” (così latra la morigerata biografia)? Semplice e schietta, come lui (forse, chissà). Pigliate Via Paolo Fabbri 43. C’è il suo faccione, inquadrato tra mento e fronte, con barba di scena. Stop. La copertina dell’ultimo libro di Guccini+Macchiavelli fotografa una foresta idilliaca, con una bella mora seduta, occhi chiusi, schiena nuda, muschio che copre culetto e parti intime, seno in evidenza. Pare un incrocio tra il libro fantasy e il softporno, forse è un porno-fantasy. Invece, Tempo da elfi dovrebbe essere il ‘giallo’ che santifica i primi vent’anni della coppia Guccini+Macchiavelli, che sognano di diventare il Fruttero&Lucentini degli Appenini, col cavolo elfico che ce la fanno, e non si è ancora capito se è Guccini a prestare la firma per far levitare la fama di Macchiavelli o Macchiavelli a prestare la penna per convincere Guccini che sa scrivere. La trama del libro è a dir poco frugale: Marco Gherardini, soprannominato ‘Poiana’, trentenne arrapato che esercita l’arte nella forestale, indaga sul delitto di un membro della comunità degli ‘elfi’, fricchettoni strambi che vivono nei boschi intorno al fittizio borgo di Casedisopra, in Appennini pieni. Gli ‘elfi’ sono un po’ gli ultimi reflui dei ‘figli dei fiori’, provengono dall’immaginario del Signore degli Anelli (citato a pagina 44), ma è bene non citare troppo Tolkien, altrimenti l’immaginazione va ai Campi Hobbit del Movimento Sociale Italiano, non sta bene. Insomma, a un certo punto la comunità degli elfi – specie di stralunato Eden olistico – è scossa dall’omicidio di uno dei loro: chi sarà l’assassino? Beh, all’assassino arriviamo quasi subito, dacché il libro è costruito come una fiction, allinea una sfilza di inutili sketch, non è una scacchiera che mette in crisi la capacità deduttiva del lettore. Insomma, può leggerlo pure un cretino. Più che la storia, in effetti, conta il contorno: il cibo (a pagina 105, ad esempio, vi sorbite “saltimbocca alla romana, o meglio alla forestale, e funghi. Nella fattispecie russole”, d’altronde, ormai, ogni giallo che si rispetti è un ricettario con il pretesto del delitto), il sesso (‘Poiana’ se la fa con una elfica ventenne, Elena, buon per lui, ma la descrizione dell’atto è fragorosamente patetica: “quando lui entrò dentro di lei, dolcemente, la ragazza si lasciò sfuggire un piccolo gemito di piacere”, per fortuna…; d’altra parte all’ispettore ribolle il sangue vedendo l’elfica con “camicia, bagnata” che “faceva risaltare i piccoli seni che premevano contro il tessuto, coi capezzoli in fuori, quasi volessero bucare la stoffa”, roba che neppure un ‘Harmony’ per ottuagenari), una spruzzata di ecologismo demenziale. Frasi come “la presenza del lupo era un fatto importante per il ritorno dell’ambiente alle sue origini”, “la sua ricomparsa sulle montagne era, quindi, indicatore di una buona situazione ecologica”, sono inessenziali alla struttura del romanzo, sono vergognosamente banali, non starebbero bene neppure su Focus. Ma qui, appunto, della forma frega a nessuno, svergognati: Guccini+Macchiavelli han detto più di una volta quanto si divertono a scrivere libri insieme – si divertano fra amici, nei più remoti bar appenninici, senza martoriarci con le loro masturbazioni nostalgiche, ambientaliste, noir, che fruttano denaro in misura equivalente alla nostra rottura di palle. Tra l’altro, senza citare strumentalmente i veri giallisti – ma come fai a scrivere ’sta roba dopo Friedrich Dürrenmatt, dopo la coppia Borges+Casares? – qui manca proprio ciò che Guccini&Co. si vantano di avere: una scrittura rustica, popolana, sporca, di macerie e di fango, che provenga dalla melma delle bettole, che sappia di montagna, di ululato e solitudine. Il libro è asettico, incolore, inodore. Basta digitare i personaggi, dettagliare lo sfondo, e un computer qualsiasi partorirebbe da solo, senza intelligenza umana, un romanzo simile, forse più bello. Meglio continuare a sognare “la ragazza dietro al banco” che “mescolava birra chiara e Seven-Up… bella d’una sua bellezza acerba, bionda senza averne l’aria”. Gli elfi stanno bene solo nel giardino di Tolkien.
Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, Tempo da elfi, Giunti 2017, pp.304, euro 18,00
La carota. Mi arriva la mail di un lettore de Linkiesta. L’ennesima. Di solito è una richiesta di risarcimento danni in seguito a una delle mie ‘bastonate’. Lo so, rompo la cristalleria delle buone maniere in merito alla narrativa patria. Detto altrimenti, rompo le palle. Invece, è la rara lettera di un lettore che fa i complimenti. Il lettore è uno scrittore. “Sa, io non appartengo al mainstream”. La cosa che dicono tutti quelli che non sanno scrivere. Chiede se può farmi inviare il suo ultimo libro. Ottimo. Io apro pregiudizialmente le braccia al mondo intero. Lo scrittore è Guido Mina di Sospiro. Nome atipico, vita atipica – parte da Milano, vive a Washington DC, l’ultima mail me la invia dal Messico – nessuna voglia di essere simpatico. I libri di solito li pubblica negli Usa; in Italia lo stampa Ponte alle Grazie. Non ha amicizie tra i mandarini dell’intelligenza italica, non ambisce al Premio Strega, “scrivo perché mi riesce – soprattutto, leggo”, mi scrive. Un specie di belva rara. Mi informo. Nel 2013 pubblica per Random House – che è l’editore maximo del mondo anglosaxon – The Metaphysics of Ping-Pong, trasmutato in La metafisica del ping-pong (stampa, in Italia, l’anno scorso, Ponte alle Grazie). Del libro parlano tutte le riviste che contano d’Albione in su. Ci credo. A garantire per Mina di Sospiro, retaggio aristocratico che brulica fin dal cognome, c’è Gillon Aitken, potentissimo agente letterario – è spirato esattamente un anno fa – che gestisce la carriera di gente come V.S. Naipaul e Salman Rushdie. Eppure, Guido non se la mena, non deve dimostrare al resto dell’umanità – difetto italico – quanto è bravo, buono, giusto. Ottimo pedigree. Leggo. Incipit. “Miami, fine anni ottanta. Nella guida di Miami ci sono 312 José Rodriguez. Uno di questi è alla guida dell’ambulanza che trasporta Christopher Foley. Come tutte le ambulanze, anche questa va di fretta”. Le parola azzannano la pagina con rapacità, assecondando le norme consuetudinarie del ‘genere’. Subito dopo, però, lo scrittore cambia marcia. Il delirio di Christopher è costellato, fin da subito – “il pensiero del finito incute più paura del pensiero dell’infinito?” – da una scrittura onirica, sbrecciata, filosofica. Vado avanti. Il romanzo è un ‘giallo’. Che alterna, con bulimica capacità, diversi registri narrativi. Il cuore del romanzo è la mappa di un’isola dei Caraibi, “concepita… da una mente superiore, o perlomeno da uno con un debole per i rebus”. L’isola in questione, Negrillas, dal 1867 scompare dalle mappe nautiche. Il topos dell’‘isola del tesoro’ – nel romanzo c’è un narcotrafficante e ci sono Christopher e Marisol, incaricati di trovare la fatidica isola perduta – è svalvolato: il ‘tesoro’, in realtà, è la conoscenza. Il romanzo, che ha il ritmo del ‘giallo’, è un romanzo iniziatico. Mina di Sospiro mescola le atmosfere livide dei film di Michael Mann alle sofisticherie di Goethe, il modo schietto di Ian Fleming alle visioni abissali – i capitoli più limpidi sono in mare – di Joseph Conrad. Soprattutto, non ha paura di fare del romanzo un oggetto culturale, denso di citazioni – si va, coerentemente allineate in appendice, da Borges a Ruben Dario, da Carlos Fuentes a José Marti – consapevole che il romanzo, intanto, è uno strumento di conoscenza. Poi, fa pure divertire. Ha ragione Mina di Sospiro, questo non è un libro che ondeggia nel mainstream. Buon per noi.
Guido Mina di Sospiro, Sottovento e sopravvento, Ponte alle Grazie 2017, pp.192, euro 14,90