“… Ma secondo voi, quando devo selezionare dei candidati qui a Stanford… con quale criterio li scelgo? Ovvio… la raccomandazione!”.
Istruzioni per l’uso: prendere la parola chiave feticcio del familismo che ci afflligge, come ci ricorda impietosa la cronaca. E immaginare di capovolgerne il significato: cosa accadrebbe se anche in Italia “raccomandazione” volesse dire segnalare il migliore? E quali danni subisce l’intera comunità, da questa rincorsa al ribasso, che non penalizza solo chi si vede preferire ingiustamente uno meno meritevole?
E’ diventato un caso politico da prima pagina, la storia del sottosegretario che ha rimesso le deleghe per l’imbarazzo di avere un figlio “assunto per non lavorare” da un suo collega di partito, come svelato da un’inchiesta televisiva. E questo solo pochi giorni dopo il piccolo terremoto fra docenti tributaristi, alcuni dei quali finiti agli arresti, nell’inchiesta su concorsi pilotati, scaturita dalla denuncia di un ricercatore che ha rifiutato di farsi da parte per lasciare il posto a “raccomandati” meno titolati di lui.
Certo la politica, come l’Università, non è tutta così. Ma forse non c’è piena consapevolezza di quanto questo malcostume diffuso danneggi gravemente non solo chi è ingiustamente discriminato ma l’intera società. Perché la raccomandazione familista, in cui si avanza per fedeltà, anzianità o clientelismo e non per merito, è un modello statico, che non premia il dinamismo ed è destinato a soccombere in una realtà globale nel confronto con modelli sociali capaci di valorizzare i migliori. Per questo, val la pena di capire cosa significhi “raccomandazione” in un ecosistema dinamico e meritocratico, come quello che più sperimenta il futuro: Silicon Valley.
Laurea in Chimica e Fisica alla Sapienza di Roma, arrivato negli USA con una borsa di studio Fullbright, dopo un dottorato a Berkeley e un post doc al Xerox Park, Alberto Salleo oggi è Associate Professor alla Stanford University, l’università attorno alla quale è cresciuta Silicon Valley, dove si occupa di Scienza dei Materiali, in un ruolo in cui abbina la figura del docente a quella del manager.
Salleo si diverte a spiazzare gli interlocutori, quando lo incontriamo con i nostri gruppi di professionisti di ogni settore con l’Italiani di Frontiera Silicon Valley Tour, viaggi che prima di far conoscere nuove tecnologie e nuovi modi di lavorare, sono full immersion in un modo di pensare diverso. E poche parole chiave sono rivelatrici di questa differenza, rispetto alle nostre abitudini, come “raccomandazione”.
Possibile che anche a Stanford… si avanzi per raccomandazione? Sì, ma in un altro modo. Proprio perché… è un altro mondo.
Quando viene annunciato che c’è un posto disponibile, «la cosa più importante è la lettera di raccomandazione in cui ci si fa garante del candidato», spiega Salleo. In genere e solo una presentazione, «perchè solo chi è più bravo riceve una lettera di raccomandazione».
La cosa importante da capire è che la credibilità di chi raccomanda essenzialmente dipende dalla qualità di chi ha segnalato. E nessuno può permettersi di segnalare per interesse personale qualcuno che non è idoneo. Semplicemente perché In un ambiente meritocratico, “raccomandare” qualcuno per motivi diversi dal merito avrebbe per chi ha effettuato la segnalazione esiti micidiali sul bene più prezioso per un professionista: la propria reputazione.
Un docente è un po’ anche “amministratore delegato”. Per questo il professore deve anche saper fare marketing per reperire finanziamenti, tenere il morale alto ed esser certi che tutto venga eseguito, per arrivare a risultati che consentiranno di ottenere nuovi fondi. Motivare la squadra e saper selezionare i più idonei, proprio in base a “raccomandazioni” di docenti e professionisti, per individuare i migliori.
Nel caso di Salleo e del suo lavoro a Stanford, scelte e motivazioni vanno oltre l’ambito accademico. Perché la sua ricerca viene condotta con piglio manageriale. Un docente è un po’ anche “amministratore delegato”, guida un gruppo di studenti che pagano una retta ma che vengono pagati per questo lavoro di ricerca, circa 100mila dollari l’anno, con fondi che provengono da agenzie governative o industrie che finanziano questo ricerche dalle quali possono scaturire importanti innovazioni, nuovi materiali per applicazioni in grande scala come display e celle solari.
Per questo il professore deve anche saper fare marketing per reperire finanziamenti, tenere il morale alto ed esser certi che tutto venga eseguito, per arrivare a risultati che consentiranno di ottenere nuovi fondi. Motivare la squadra e saper selezionare i più idonei, proprio in base a “raccomandazioni” di docenti e professionisti, per individuare i migliori. (Qui la videointervista ad Alberto Salleo)
Quali sono i danni che “raccomandare per convenienza personale e non per merito” procura alla società e all’accademia? Prima di tutto, quello di perpetuare il vecchio e frenare le idee nuove, mi aveva detto qualche anno fa, proprio a Stanford, uno scienziato leggendario, il genetista Luca Cavalli Sforza, oggi tornato in Italia, ultranovantenne.
Perché in Italia non riusciamo finalmente a fare di questa meritocrazia una regola? «Non sappiamo collaborare non ci fidiamo.. purtroppo questo difetto l’abbiamo anche nelle Università. Io sono molto ammirato da come qui a Stanford la scelta dei nuovi professori sia orientata esclusivamente alla scelta dei migliori», aveva detto lo scienziato.
In Italia ancora non si riesce a funzionare in questo modo «perché i concorsi sono controllati da alcuni personaggi figure centrali dell’argomento e c’è la tendenza portare sempre i propri allievi. Ora, quando si portano i propri allievi si portano le proprie idee, cioè non si portano le novità, si porta la roba vecchia, è molto semplice».
Bisogna accettare, creare le idee nuove dimenticando le vecchie, aveva detto Cavalli Sforza. «Ma se noi prendiamo i nostri allievi e li mettiamo in cattedra perché continuino le nostre idee (…) le università si fermano (…) forse per le Università italiane, il metodo migliore sarebbe che nei concorsi fossero dei professori stranieri a scegliere i nostri», aveva concluso provocatoriamente lo scienziato.
Le cose stanno cambiando, ma forse troppo lentamente. Non occorre certo spiegarlo alle migliaia di studenti, ricercatori e professionisti che vivono un’esperienza all’estero, che il clientelismo nelle nomine è ancora uno dei malcostumi peggiori che frenano il potenziale dell’Italia. E’ a chi ha meno dimestichezza con la scena internazionale, che occorre farlo capire, con una battaglia culturale: «Chi raccomanda in base a clientelismo, penalizzando i migliori, danneggia comunque anche te. Digli di smettere».