Dentro il quorum del Veneto, dentro il 40 per cento di affluenza della Lombardia, ci sono anche gli elettori del M5S, del Pd, di FI, ma non importa. Il successo del referendum autonomista è tutto di Luca Zaia e lo strano caso delle nostre Catalogne in miniatura si conclude come prevedibile: con la consegna alla “vecchia Lega” – la Lega della devolution, di Roma Ladrona, di Padroni A Casa Nostra – del monopolio politico su una battaglia che evidentemente continua a scaldare i cuori e in qualche modo offusca le ambizioni nazionali di Matteo Salvini. «Da domani lavorerò perché anche i cittadini delle altre regioni che già me lo hanno chiesto, dalla Puglia al Piemonte, dal Lazio alla Toscana, possano fare la stessa scelta», dice il segretario leghista, cercando di mettere il cappello su una strategia e una vittoria che non è sua. E nella frase c’è la controprova della torsione in corso, giacché è evidente il conflitto di interessi tra le Regioni del Centro-Sud e l’eventuale successo dell’operazione di Zaia, finalizzata, come ha immediatamente dichiarato il Governatore, a “tenersi il 90 per cento le tasse”.
Il referendum del lombardo-veneto è uno strano caso per molti motivi. Il primo è l’assenza di competizione. Tutti i partiti, di governo e di opposione, si sono consegnati al racconto leghista. Solo dieci anni fa il referendum sulla Devolution aveva visto un’aspra battaglia tra il centrodestra a trazione leghista e il mondo progressista. Oggi si è preferito salire in massa sul carro del probabile vincitore. Il fronte del No non esisteva. Il consueto fronte dell’astensione, che su altri quesiti (vedi Trivelle) aveva incendiato il dibattito, si è limitato alle dichiarazioni del ministro Maurizio Martina e qualche battuta di Giorgia Meloni. Persino il M5S, così orgoglioso delle sue battaglie “in solitaria” e così poco disponibile ad accodarsi ad operazioni altrui, è passato sotto le forche caudine del governatore Zaia e si è messo in fila per baciare la pantofola autonomista. Complesso di inferiorità? Resa all’ineluttabile? Più che altro, sembra aver agito il terrore della sconfitta e una strategia politica che consentirà di dire, oggi, a risultati acquisiti: “abbiamo vinto anche noi”.
L’esito più evidente – la rivincita del leghismo Old Style – è anche quello che conterà e avrà conseguenze. La linea Bossi, quella che Matteo Salvini pensava di aver sepellito proprio quest’anno vietando il palco al vecchio padre-padrone, si conferma come la radice ineluttabile e incancellabile del Carroccio, quella che regala più soddisfazioni.
L’asimmetria tra i risultati del Veneto e della Lombardia è il secondo elemento singolare di questa storia. “Quota 40” è più o meno la percentuale con cui è stato eletto Roberto Maroni cinque anni fa, e il fatto che in Lombardia l’affluenza si sia fermata lì, nonostante il robusto appoggio al quesito del Pd Gorgio Gori, marca una sostanziale differenza all’interno delle due enclavi leghiste. Se le istanze autonomiste del Veneto non sono discutibili, quelle della Lombardia risultano quantomeno dubbie e circoscritte all’elettorato che ancora segue le indicazioni dei partiti: il “popolo lombardo” per dirla con la retorica della politica, e specialmente i milanesi (25% di votanti), è rimasto piuttosto indifferente. La mitica Padania non è tutta uguale. E, probabilmente, i molti scandali che hanno scosso la Regione Lombardia dall’era Formigoni in poi hanno vaccinato parte degli elettorati dall’idea che sia opportuno consegnare maggiori margini di autonomia alle classi dirigenti locali.
Ma le analisi di dettaglio in questo momento sono secondarie. L’esito più evidente – la rivincita del leghismo Old Style – è anche quello che conterà e avrà conseguenze. La linea Bossi, quella che Matteo Salvini pensava di aver sepellito proprio quest’anno vietando il palco al vecchio padre-padrone, si conferma come la radice ineluttabile e incancellabile del Carroccio, quella che regala più soddisfazioni. E si porta dietro anche un tipo di relazione con le altre forze del centrodestra, Berlusconi e Forza Italia in primis, del tutto divergenti dalla competizione muscolare avviata dall’attuale segretario, dalle sue sortite pirotecniche e provocatorie, dal suo sgomitare per la primogenitura. I referendum incoronano la Lega di governo, in giacca e cravatta, senza felpe, senza troppa visibilità televisiva. E c’è da immaginare che i suoi promotori, i vecchi colonnelli di Bossi, Zaia e Maroni, aspettino al varco la prova dell’«altra Lega» nelle Regionali siciliane per chiudere il cerchio, e i conti con il loro giovane leader.