L’Italia è il Paese con con meno laureati in Europa dopo la Romania. Tra i 30 e i 34 anni, a un’età in cui gli studi dovrebbero essere finiti da un pezzo e in cui dovrebbe decollare la carriera, solo il 26,2% degli italiani ha un titolo di studio universitario.
Il fatto che nonostante il loro esiguo numero questi laureati abbiano comunque più difficoltà di quelli europei a trovare lavoro e avere un congruo stipendio la dice lunga sul sistema economico italiano, dal punto di vista qualitativo, sul grado di avanzamento tecnologico delle nostre imprese, per esempio, sulla loro spinta all’innovazione. Ma le anomalie e le incongruenze in realtà non finiscono qui.
Sembra infatti che non ci sia collegamento tra aree economicamente più avanzate e quelle con più studenti universitari. E’ proprio nelle regioni con reddito minore e imprese meno innovative che vi sono più iscritti, o forse, essendo la carenza di laureati il nostro problema, e non il suo opposto, sarebbe meglio dire che è nelle regioni più ricche che ve ne sono meno. La Lombardia ha quasi il doppio degli abitanti della Campania, eppure nel 2016 aveva solo 5 mila iscritti in più all’università, 210 mila contro 205 mila. Ma il fatto più sorprendente è in realtà che subito dopo venivano tre regioni del Centro-Sud come Lazio, Sicilia, Puglia, che si posizionavano davanti altre del Nord con una popolazione non molto distante, come Veneto, Emilia Romagna, Piemonte. Il Piemonte ha il 24% degli abitanti meno del Lazio, ma la metà degli studenti universitari.
A livello percentuale la Lombardia esprimeva il 12,8% degli iscritti anche se rappresenta il 16,5% della popolazione. Al contrario in Campania vive il 9,5% degli italiani, ma il 12,5% degli universitari. Simili sproporzioni si trovano per le altre regioni del Nord e del Sud. E così non stupisce se, guardando alle province (o alle città metropolitane in alcuni casi), dopo quella di Roma veniva la provincia di Napoli, con il 42% di laureandi in più rispetto a quella di Milano, nonostante abbiano una popolazione quasi identica. Brescia è la sesta provincia per numero di abitanti, la prima non Città Metropolitana, eppure in questa classifica era tredicesima, superata anche da Cosenza, che pure ha una popolazione inferiore di 500 mila persone!
Le statistiche riguardano i residenti, non le sedi delle facoltà. Si potrà pensare che in realtà questi napoletani, pugliesi, siciliani, in realtà vadano a studiare al Nord, per poi rimanerci e cercare lavoro. In parte è così, certamente, ma probabilmente non come immaginiamo. Coloro che si spostavano di più nel 2016 erano i pugliesi, più del 30% si recava al Centro Nord, rimaneva in regione il 60,6% mentre un altro 8% andava in altre aree del Mezzogiorno. E tuttavia i campani rimanevano a casa nel 82,3% dei casi, e i siciliani nel 70,6%.
Naturalmente le scelte sono individuali, ma ci possono essere diverse teorie per questi comportamenti. Si potrebbe pensare, a essere ottimisti, che al Centro-Nord, in parte come in Germania, il sistema di piccole e medie imprese, molte delle quali ancora manufatturiere, riescono ad assorbire i diplomati e a essere quindi una buona attrattiva, alternativa all’università. In realtà anche negli anni della crisi chi aveva solo un diploma ha sofferto a livello occupazionale più dei laureati, in particolare tra i giovani.
Purtroppo l’impressione è invece che queste differenze tra regioni siano spiegabili in un altro modo, ovvero l’iscrizione all’università è un qualcosa di quasi totalmente slegato dalle possibilità professionali, e per i meridionali funzioni come una alternativa al finire nel baratro dei NEET, coloro che non studiano nè lavorano. Almeno per qualche anno. Qualche indizio viene dalla scelta delle facoltà in base alla regione in cui si studia.
Logica vorrebbe che coloro che vengono da luoghi economicamente più svantaggiati scelgano più di altri una facoltà che possa dare possibilità di impiego. Eppure non è così. La proporzione di aspiranti ingegneri era più o meno la stessa, tra il 13% e il 14%, nelle principali regioni di Nord e Sud, così gli aspiranti medici. Con poche eccezioni.
Per esempio i campani battevano tutti in iscrizione alle facoltà giuridiche, i lombardi erano solo quarti e sono il 10,3% degli studenti di giurisprudenza, dietro anche a laziali e siciliani. Al contrario rimanevano primi tra gli studenti di economia
Ma l’indizio più grande, e quello più tragico, viene dagli esiti di questi studi. Anche se sono coloro che più si iscrivono all’università gli studenti meridionali sono quelli che tendono a rimanere più fuori corso e a laurearsi di meno. Nel 2016 coloro che erano iscritti e che erano nati tra il 1982 e il 1990, quindi fuori corso, erano decisamente di più in Campania e in Sicilia che in Veneto e in Lombardia. Più del 30% in Sicilia, meno del 20% in Lombardia.
E poi i laureati. Qui a differenza degli iscritti, la differenza tra Lombardia e le altre regioni si vede. I lombardi erano il 12,8% degli studenti, ma il 14,5% dei laureati. Per i campani invece si passava dal 12,5% al 10,8%. Il Veneto sorpassava la Puglia. Insomma, tutte le regioni del Nord avevano una percentuale maggiore tra i laureati che tra gli iscritti.
Cosa è l’università oggi? Il dubbio è che per molti sia un modo per spingere un po’ più in là il momento cruciale del confronto con la realtà, una sorta di ammortizzatore sociale, uno dei tanti spuri che in assenza di quelli reali, di una formazione mirata per chi è senza lavoro, di un welfare efficiente, la società si crea da sè, usando le risorse familiari, quando vi sono. Ed è così, senza tanta convinzione, senza una chiara idea dello sbocco futuro, che alcune famiglie inviano i figli nelle università. E’ una scelta che sa di via di mezzo tra quelle di non fare nulla e diventare NEET e di coloro che invece tentano il tutto per tutto andando all’estero. A volte però ha lo stesso sapore di disperazione.