Vedi Napoli e poi ti truffano (e fanno bene)

Nelle sue storture, nella sua sporcizia, nella sua cazzimma, Napoli è una città che inneggia alla vita, all’avventura, all’imprevisto. Garantisce alla nostra nazione un po’ di scaltrezza, ci allena a tenere gli occhi aperti, a stare all’erta. Vogliamo davvero che l’Italia nel mondo sia solo Milano?

Sono appena stato truffato a Napoli. Cioè, truffato, non so se il termine tecnico sia truffato, o non sia meglio dire raggirato, gabbato, beffato, ma insomma, il concetto è quello: m’hanno fottuto. È una di quelle cose che ci si aspetta da Napoli. I pregiudizi hanno spesso basi reali. E a Napoli, più che altrove, il rischio di venire fottuti c’è, e si vede.

Ma andiamo con ordine. Mi sveglio tardi perché, rientrato da una diretta televisiva, ho passato la notte a cercare di prendere sonno ascoltando, più che guardando, vecchie puntate di “Storie Maledette” su YouTube. Avvinto dai drammi umani più impensabili, si è fatta l’alba. E così, a svegliarmi da un profondo sonno popolato da assassini maldestri e assassini praticamente beccati in flagrante ma capaci di negare anche l’evidenza, è una cameriera convinta che avessi liberato la stanza all’ora convenuta. Io mi tiro su dal letto e urlo per lo spavento, lei si schiaccia contro la parete e urla perché sono nudo, e insomma, provo a lanciarle uno sguardo rassicurante, ma la povera donna scappa via urlando Gesù Gesù Gesù e io mi sento come deve essersi sentito il povero Dominique Strauss-Kahn quando si giocò la presidenza francese per un alzabandiera mattutino. Ma non ho tempo di preoccuparmi di cosa diranno sul mio conto quelli dell’albergo a quelli della produzione Rai. Sono a Campi Flegrei, vicinissimo agli studi, ma lontanissimo dalla stazione. E sono davvero in ritardo. Corro via, senza prendere neanche un caffè o rubare un asciugamano.

Arrivato nei pressi della stazione prima del previsto, ringrazio il cielo di avere il tempo di un caffè, e soprattutto di acquistare le sfogliatelle che mi sono state commissionate dalla fidanzata – casertana – con cui vivo a Milano, e che la scorsa settimana, nello stesso tragitto, avevo dimenticato sul treno. Il posto delle sfogliatelle buone, non lontano da Piazza Garibaldi, dove sta la stazione, è pienissimo. Prendo il numero, ne ho 28 davanti, guardo l’ora, prego che si sbrighino, e nel frattempo vado a prendere il primo caffè della giornata (sono le tre del pomeriggio passate, sarà indecoroso svegliarsi così tardi, ma se avessi un problema di droga o di alcol verrei compatito, non capisco perché la gente non ritenga altrettanto invalidante la mia dipendenza da Franca Leosini!).

Tutti i tabacchini hanno l’Hold Holborn bianco, molti il giallo, pochissimi il blu, che è il mio preferito, ma secondo la maggior parte dei tabagisti sa invece di tabacco da pipa dimenticato in cantina da anni. Come previsto, tre tabacchini su tre non ce l’hanno. È tardi, mi avvio rassegnato in stazione, quando sulla strada, un signore dall’aria non esattamente distinta, sui settanta, con una lunga cicatrice che gli attraversa la guancia sinistra, mi offre sigarette di contrabbando

Dopo il caffè, cerco il tabacco in tasca, ma niente. Devo averlo lasciato in albergo. Resto in fila senza fumare, al mio turno ordino frolle e ricce, pago svuotandomi le tasche dagli spiccioli approfittando per tastare se per caso il tabacco non sia ancora in tasca, ma niente. Così cerco un tabacchino, ma è sempre la stessa storia. Fumo Old Holborn Blu.

Tutti i tabacchini hanno l’Hold Holborn bianco, molti il giallo, pochissimi il blu, che è il mio preferito, ma secondo la maggior parte dei tabagisti sa invece di tabacco da pipa dimenticato in cantina da anni. Come previsto, tre tabacchini su tre non ce l’hanno. È tardi, mi avvio rassegnato in stazione, quando sulla strada, un signore dall’aria non esattamente distinta, sui settanta, con una lunga cicatrice che gli attraversa la guancia sinistra, mi offre sigarette di contrabbando. Che diavolo, potrei prendere un pacchetto, pagarlo poco, fumare prima di salire sul treno prima che il gusto del caffè svanisca del tutto e poi comprare il mio tabacco dal tabacchino sotto casa a Milano.

– Allora, giovane, che stecca vuoi?

– No, grazie, solo un pacchetto…

– Come un pacchetto? Che cosa fumi? Marlboro bianche vanno bene?

– No, no, per l’amor del cielo…

– E che fumi?

– Old Holborn Blu.

– E che problema c’è abbiamo tutto qua!

– Davvero?

– Eh!

– Lei è un sant’uomo, non sa quanta fatica faccio ogni volta per…

– Devo andarlo a prendere: due buste 6 euro.

– Benissimo!

– Ti metto anche due pacchetti di Marlboro, tutto 10 euro, che pure io devo campà…

– Va bene, va bene, ma ho frettissima e – dico tirando fuori dalla tasca i soldi che mi sono rimasti, due banconote da 50 euro – però, in realtà, non ho spiccioli, ho solo 50 e…

– Va benissimo, ti porto 40 di resto, tu stai qua dalle sigarette.

– Ma…

– Non le posso lasciare qua, anzi, vuoi anche del fumo?

– Come?

– Fumo, fumo buono.

– No, io…

– Guarda che è bbbuono…

– Non discuto, ma io… devo prendere il treno.

– Ma che ti frega, te lo metti nelle mutande.

– No, no, guardi, lei è molto gentile ma…

– Dammi anche questi 50 così li cambio con gli spiccioli, per la polizia… troppe banconote da 10 meglio di no…

– Non mi sembra il cas…

– Jamme, muoviti, dammi sti soldi che passa la gente.

– Io, vede…

– Jamme, che perdi il treno, sbrigati, vado e torno, ti faccio anche un regalino di fumo…

– Ma io… non lo voglio…

– E jamme…

Mentre lo osservo girare l’angolo coi miei 100 euro sono molto perplesso. Gli africani che vendono occhiali da sole sembrano scuotere la testa in coro davanti alla scena. Ma forse sono solo paranoico. Una ragazza, anche lei africana, mi grida qualcosa che nel profondo già so: Guarda che quello scappa coi soldi. Ma è come se mi risvegliasse dal torpore. Al che, rapidamente, abbandono il banchetto di sigarette che sono stato lasciato a piantonare e giro l’angolo. Il signore, piuttosto lontano, ma ancora visibile, procede a passo svelto.

Mentre lo osservo girare l’angolo coi miei 100 euro sono molto perplesso. Gli africani che vendono occhiali da sole sembrano scuotere la testa in coro davanti alla scena. Ma forse sono solo paranoico. Una ragazza, anche lei africana, mi grida qualcosa che nel profondo già so: Guarda che quello scappa coi soldi. Ma è come se mi risvegliasse dal torpore. Al che, rapidamente, abbandono il banchetto di sigarette che sono stato lasciato a piantonare e giro l’angolo. Il signore, piuttosto lontano, ma ancora visibile, procede a passo svelto. Gli grido. Torna in dietro sbracciandosi:

  • Ma che fai, le mie sigarette, tu si pazz’, se le rubbano…

  • Sì, no, però… – dico mentre torniamo insieme al banchetto – mi ridia almeno i 50 in più, mi servono interi per…

  • Jamme, qua mi legano, statti buono qua che torno…

  • Io però non mi sento sicuro, se mi potesse ridare almeno i 50…

  • Ho il fumo in culo, fammi andare, statti qua!

Così, di nuovo, il signore gira l’angolo, e io resto a vigilare sulle sue sigarette, sempre meno convinto della sua specchiata onestà, ma sempre più ipnotizzato dalle sue movenze, dal suo modo di parlare. La ragazza africana, come un chirurgo che avanza verso i parenti di un paziente appena deceduto, con l’espressione tipica del “abbiamo fatto tutto il possibile, ma non c’era niente da fare”. Gli ambulanti di fronte, di cui desidererei l’approvazione, non mi guardano negli occhi, ma sembrano ancora scuotere la testa, sempre in coro.

Controllo il cellulare, istintivamente lo stringo in pugno, mi guardo intorno, penso: non mi farò fregare il cellulare. Dal nulla, sbuca un tizio urlante: Ueeeeee, guarda che chillo t’ha fottuto, vagli dietro, qua non c’è niente – dice afferrando una stecca di sigarette e sbattendola violentemente contro il muro – è vvvuota, nun ci sta nniente ccà…

  • Ma, ma… mi ha detto di stare attento al banco e…

  • Gaarda ccà – dice mordendo un angolo della stecca, scartando il rivestimento e rivelando il polistirolo all’interno – nun ci sta nniennt…

Ora, che mi si creda o no, so benissimo cosa sta per succedere. È come se fosse un copione già scritto. Come se mi sentissi in dovere di assecondare in un certo qual senso quell’inevitabile sequenza di avvenimenti dalla scontata conclusione date le premesse che chiamiamo destino. L’inevitabile coerenza narrativa delle cose, per me, ha la forza attrattiva di un buco nero, una specie di magnetismo da cui non so sottrarmi. Un’attrazione fatale, che porta a fare delle cose pur sapendo benissimo che andrà a finire male, come nelle discussioni con la mia fidanzata, quando finisco a portare avanti posizioni in cui non credo solo perché ormai ho iniziato, o quando cerco di aprire un barattolo senza l’apriscatole e non so fermarmi finché non ho imbrattato tutta la cucina, o quando mi metto a scrivere un articolo per ragioni pretestuose, non riesco a chiuderlo, so perfettamente che dovrei riscriverlo daccapo o lasciare perdere, e invece continuo ad allungarlo e ad aprire parentesi senza sapere più dove voglio andare a parare. Sospetto che sia un meccanismo sperimentato anche da tanti assassini intervistati dalla Leosini.

Anche se spero di non trovarmi a interpretare mai la parte dell’assassino maldestro, posso dire che in realtà mi sento decisamente a mio agio nella parte del pollo. Così, borsa col portatile a tracolla, trolley in una mano e sacchetto con le sfogliatelle nell’altra, seguo le indicazioni dell’uomo urlante, giro l’angolo, accenno una goffa corsetta nella direzione in cui il contrabbandiere si è allontanato, il tempo di dirmi Ma dove cazzo vai? e tornare indietro, e il tizio urlante è ovviamente sparito. E con lui il banchetto con le sigarette (evidentemente non tutte finte).

Gli africani, stavolta senza ombra di dubbio, scuotono la testa. Io, molto dignitosamente devo dire, mi avvio senza indugiare verso la stazione, anche lì, invece di correre, camminando, come se avessi tutto sotto controllo, come se tutto facesse parte di un piano a loro misterioso. Alla fine, il treno non lo perdo comunque, solo che salgo senza aver fumato. E il treno, che ho preferito all’aereo perché non ho voglia di perdere tempo ai controlli, per inciso, è fermo da ore nella maledettissima stazione di Bologna, nella parte sotterranea ad alta velocità naturalmente, dove non posso scendere a fumare nemmeno una sigaretta che avrei potuto scroccare a qualcuno. Per il nervoso, mangio una sfogliatella.

C’è chi dice che dovrebbe tornare a esserci il servizio di leva obbligatorio perché i millennials sono dei rincoglioniti viziati. Secondo me, per salvare le nuove generazioni di babbei che stiamo crescendo, basterebbe mandarli un mese a Napoli. Tipo stage. Imparerebbero che l’imprevisto è il sale della vita. Che senza sarebbe come giocare a un Monopoli in cui non ci siano carte che ti mandano dritto in prigione senza passare dal Via.

Mio padre, al telefono, mi dice che se questa cosa mi farà capire che devo smettere di fumare saranno soldi ben investiti. Detto a un tabagista incallito bloccato su un treno che ha appena regalato 100 euro a un contrabbandiere pur di fumare una sigaretta dopo il caffè e che dopo cinque ore e mezza ancora non ha fatto nemmeno un tiro è qualcosa che può davvero spingere a riflettere. O impazzire. Io sono impazzito (papà, se mi leggi, perdonami, non pensavo le cose che ho urlato al telefono). Ad ogni modo, qualche passeggero, infastidito, è andato a chiamare il capotreno. Che è arrivato mentre stavo strillando

Comunque, il problema di questo paese non sono io, sono questi dannati treni moderni in ritardo come quelli vecchi in cui però non si può tirare giù il finestrino e fumare, con le porte che si aprono automaticamente e tu non puoi stare in pace tra una carrozza e l’altra senza sentirti come davanti al supermercato, il problema di questo paese è Bologna, e la sua stazione fighetta dove non si può fumare da nessuna parte e… pronto? Pronto?? Pronto??? Papà? Papà? Papà?

Il capotreno mi invita a darmi una regolata. Torno a sedermi, furibondo, e mentre il treno non prosegue la sua estenuante corsa mangio un’altra sfogliatella, poi un’altra, e un’altra, tentando di calmarmi. La ricotta funziona: pur non avendo nessuna intenzione di smettere di fumare, in un certo senso mi sono davvero convinto che quei cento euro siano stati un investimento.

Credo di aver comprato un’illuminazione. Napoli è anche altro, naturalmente. Ma è anche una città che dell’arte di arrangiarsi ha fatto la sua cifra stilistica. E io, in fondo, non ho fatto altro che fornire alla città un’occasione di rinnovare la sua identità, di essere se stessa fino in fondo, libera non solo di smentire, come sta facendo in questo periodo in cui il turismo è aumentato a dismisura anche in quartieri meno immediati da visitare per i turisti di tutto il mondo, ma anche di confermare i pregiudizi che tutti abbiamo sul suo conto.

Napoli è una città che resiste, in cui le cose funzionano molto meno bene che a Milano, per dire, dove anche se mi sono trasferito solo da poche settimane tutto mi appare più facile. A Milano si vive benissimo, c’è un clima produttivo, ordinato, un’atmosfera di progresso, la città, sembra evidente a tutti, sta vivendo un momento magico che finisce per l’essere contagioso, facendo di questa metropoli europea, non esattamente bellissima, il posto migliore in Italia per costruirsi un futuro soddisfacente.

Però, diciamolo, il fascino di Napoli è un’altra cosa. Nelle sue storture, nella sua sporcizia, nella sua cazzimma, Napoli è una città che inneggia alla vita, all’avventura, all’imprevisto. C’è chi si trova a proprio agio nei paesi nordici, così funzionanti, dove la gente è sorridente e affidabile e tutto sembra andare come deve andare. Però uno pensa: ma se io, che so, paracadutassi una dozzina di napoletani in Danimarca, quanto ci metterebbero a prenderla?

Che, al di là dei piani di conquista del mondo a colpi di napoletani che mi vengono in mente, è un modo di dire che la truffa che ho subito oggi me la sono meritata. Se dai cento euro in mano a uno che vende sigarette di contrabbando ti meriti di essere truffato. È la gente come te che alimenta la razza dei ladri. I ladri non dovrebbero esserci? Ma se non ci fossero, come faremmo a farci furbi? Vogliamo davvero che l’Italia nel mondo sia solo Milano? Vogliamo trasformare il nostro spirito italico in uno spirito scandinavo? Tipo, una nazione a misura di Travaglio, del suo manettarismo fiscale, penale, esistenziale? Chiedendo in cambio poco e niente, una città come Napoli garantisce alla nostra nazione un po’ di scaltrezza, ci allena a tenere gli occhi aperti, a stare all’erta, a non pensare che tutto giri sempre per il verso giusto.

C’è chi dice che dovrebbe tornare a esserci il servizio di leva obbligatorio perché i millennials sono dei rincoglioniti viziati. Secondo me, per salvare le nuove generazioni di babbei che stiamo crescendo, basterebbe mandarli un mese a Napoli. Tipo stage. Imparerebbero che l’imprevisto è il sale della vita. Che senza sarebbe come giocare a un Monopoli in cui non ci siano carte che ti mandano dritto in prigione senza passare dal Via. Che gioia sarebbe, a quel punto, pescare una carta Esci gratis di prigione? Ora, capisco che potrebbe sembrare che sto mangiando sfogliatelle per calmarmi e speculando su questa faccenda dei cento euro che mi sono fatto rubare come un cretino per evitare di impazzire di nuovo sul treno e che il capotreno chiami la polfer.

Ma il fatto è che il fastidio che provo per essermi fatto fregare a Napoli è molto meno di quello che provo quando esco da un ristorante milanese con una fame nerissima avendo speso quasi la stessa cifra per 30 grammi di pasta serviti in un piatto irragionevolmente troppo grande e aver cercato di sfamarmi con dei cazzo di grissini con semi di non so cosa anti qualcos’altro e acqua liscia. O quando un parrucchiere mi chiede 35 euro per tosarmi quei quattro peli che ho in testa e poi mi cosparge di quelle robe terrificanti da barber shop che imitano i barbieri di una volta. O quando in un baracchino senz’arte né parte pago un pessimo gin tonic 10 euro (il che, moltiplicato per il numero di gin tonic necessari a sopportare di pagarne uno 10 euro, ovviamente, produce un impoverimento mostruoso). Quello che a Napoli puoi imparare anche se sei tonto – non dare 100 euro a uno sconosciuto che te li chiede per strada – a Milano non lo puoi imparare, perché l’intero sistema cittadino mi sembra basato sul consumare stronzate che vengono fatte pagare N volte più del loro valore a una marea di polli senza nessuna capacità di discernimento, viziati e rincoglioniti, cornuti, mazziati e contenti.

Soddisfatto dei miei arguti soliloqui sociologici, trangugio l’ultima sfogliatella mentre squilla il telefono. È la mia fidanzata.

– Mmmpfronto? – rispondo bofonchiando.

– Ma che fine hai fatto?

– Lascia stare, guarda, sti maledetti treni, sono ancora bloccato a Bologna…

– E le sfogliatelle?

– Ecco, sì, le… mmmm, sfogliatelle, guarda, lascia stare, meno male che viviamo a Milano, non puoi capire, i tuoi compaesani… mmmmm, me le hanno fregate!

– Come fregate?!?

– Eh, lo sai com’è Napoli, sono dei maledetti mariuoli, non puoi distrarti un attimo che subito ti fottono…

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