Fotografate il meno possibile e solo se avete qualcosa da dire

Fotografia non come mera imitazione della realtà, ma come la creazione di qualcosa di nuovo. Un dialogo tra il filosofo Umberto Curi ed il fotografo Ivan Cerullo

Cerullo: “L’origine del filosofare è la passione”. Le fotografie nascono per passione? Dopo un percorso filosofico?

Curi: C’è un luogo comune particolarmente diffuso e privo di vero fondamento quello per il quale la riflessione filosofica di per sé sarebbe apatica, si collocherebbe su un livello di superamento dell’emotività e della sfera affettiva. In realtà non è così, né dal punto di vista della storia della filosofia, visto che alcuni tra i maggiori filosofi – solo per citare qualche nome: Platone, Aristotele, Spinoza, Kierkegaard – riconoscono che invece l’interrogazione filosofica è stimolata proprio specificatamente da ciò che accade nell’ambito affettivo passionale. E non è vero né nell’esperienza di ciascuno di noi, perchè infondo non dobbiamo immaginare che un filosofo sia una sorta di professione alla quale possono dedicarsi solo gli adepti di una specie di casta sacerdotale. Ciascuno di noi nella sua vita quotidiana si pone talora in maniera radicale alcuni interrogativi e questi interrogativi hanno certamente un rilievo di carattere filosofico. Nella nostra esperienza credo che, più volte, abbiamo potuto verificare come questa domanda si mette in movimento, spesso scandisce anche alcuni aspetti delle nostre giornate. Sono per l’appunto alcune condizioni che derivano dall’emotività, dalla passionalità, dall’ambito affettivo. Insomma non è vero che ci sia una rigida distinzione tra la filosofia come gelido esercizio razionale e l’ambito dell’emotività che avrebbe un carattere in qualche modo contrapposto al ragionamento filosofico. Queste due sfere sono in realtà intrecciate, ma come diceva Platone, l’origine della filosofia è proprio un patos, è una forte passione.

Messa in scena fotografica: ricreare da zero una situazione non vera nella realtà, ma che diventa reale solo nella rappresentazione fotografica. E già di per sé questo modo di fotografare un ragionamento filosofico?

C’è un aspetto che mi ha colpito nel modo col quale lei descriveva l’attività della fotografia quando diceva che si tratta di realizzare qualcosa che è tutto finto, cioè tutto artificiale, è il risultato di una creazione. Anzitutto sottolineerei che questo è un aspetto che non sempre viene evidenziato della fotografia, perché al contrario si tende per lo più a sottolineare che la fotografia riproduce letteralmente la realtà, al punto tale che anche nel linguaggio comune, quando vogliamo parlare di qualcosa che sia identico ad un’altra cosa, diciamo che ne è la fotografia. Mi convince molto di più la sua impostazione, nel senso che la fotografia non è, come dire, piatta imitazione, riproduzione della realtà, ma è l’invenzione, la creazione di qualcosa nuovo, di qualcosa di diverso. Da questo punto di vista non dobbiamo dimenticare che potremmo considerare la filosofia come la ripresa moderna della nozione classica di Mimesi, nel modo col quale questo termine compare nel pensiero classico e in maniera particolare in Aristotele, quando Aristotele parla della tragedia greca, della grande tragedia di Eschilo, Sofocle ed Euripide, dice che la tragedia e più in generale la poesia, è mimesi di un’azione, di un comportamento. E quando Aristotele afferma questo non intende dire che la tragedia riproduca la realtà, ma letteralmente, crea una nuova realtà che ha come carattere quello di essere la riproduzione di un’azione. Da questo punto di vista andrebbe reinterpretata la funzione dell’arte nel mondo antico, troppo spesso pensiamo che nella Grecia del V secolo lo scopo di coloro che si dedicavano alle arti fosse quello di ricalcare la realtà di riprodurla in maniera quanto più possibile fedele, obiettiva. E in realtà non è così, perché ciò che essi intendevano fare è creare appunto dei modelli dei paradigmi delle forme che come tali non fossero soltanto la mera imitazione del reale, ma la creazione di nuove forme. Da questo punto di vista mi convince molto la sua impostazione: fotografia non è una semplice restituzione della realtà nei suoi dati di fondo, ma è la capacità di spingere lo sguardo, l’osservazione e l’esplorazione oltre i confini di ciò che abitualmente è l’ambito del nostro osservato.

“Dalle sofferenze nascono le conoscenze”. Sofferenze e situazioni difficili mi hanno sempre portato a studiare ed apprendere nuove competenze per realizzare le foto al meglio. Un fotografo mette, anche inconsciamente, nelle foto la propria storia di vita?

Mi fa piacere che abbia colto, e mi sembra condiviso, anche l’importante di questa sentenza, la cui prima formulazione risale non ad un filosofo ma ad uno storico, Erodoto, che afferma appunto che dalle “ Pazemata”, cioè dalle sofferenze, nascono i “Mazemata” e cioè le conoscenze. E questa connessione tra sofferenza e conoscenza che viene poi ribadita per esempio dai tragici del V secolo A.C, la ritroviamo riproposta sia in Eschilo che in forme diverse in Sofocle ed Euripide, ma possiamo anche volendo non riferirci necessariamente ad alcuni importanti esempi letterari, perché credo che nell’esperienza di ciascuno di noi ci sia stata la possibilità non solo di prendere atto del fatto che le sofferenze producono conoscenze, ma che questo nesso tra sofferenza e conoscenza è un nesso bilaterale, perché da un lato la sofferenza produce conoscenza. Noi per lo più, per dirla nella maniera più semplice, usciamo da una situazione di sofferenza che abbiamo capito qualcosa in più, abbiamo imparato qualcosa in più. Tra l’altro Mazemata è proprio, non semplicemente la conoscenza, è ciò che uno ha imparato . E’ vero anche il contrario, cioè – e questo viene sottolineato soprattutto nell’ambito del pensiero contemporaneo da un filosofo come Nietzsche – che la conoscenza produce sofferenza. Quante volte diciamo a noi stessi, avrei preferito non saperle certe cose, perché il conoscerle e saperle produce in noi una sofferenza. Insomma dobbiamo essere avvertiti che c’è un nesso profondo che collega conoscenza e sofferenza e che si tratta appunto di un nesso bilaterale.

Per il fotografo tutto ha un significato nella costruzione della fotografia: la posizione degli elementi presenti nello spazio per indirizzare lo sguardo, le luci e le ombre per dare un significato positivo o negativo, la semiotica delle linee di composizione. Pensando e scattando una fotografia inseriamo al suo interno elementi della psicoanalisi e della nostra vita.

Ma certo in realtà se ci si riflette la fotografia è una forma di esplorazione della realtà ed è un’esplorazione che punta a raggiungere in fondo ciò che è davvero a fondamento della realtà e non a fermarsi all’aspetto superficiale, quello che per lo più cogliamo anche semplicemente esercitando la nostra vista, la fotografia, nelle sue espressioni più compiute, migliori, a farci vedere ciò che altrimenti non vedremmo, ciò che sfugge alla nostra osservazione diretta. Da questo punto di vista mi verrebbe quasi da suggerire una sorta di definizione, cioè la fotografia è una specie di geografia dell’invisibile, cerca di descrivere ciò che altrimenti resterebbe sottratto alla visione normale. Quante volte guardando una fotografia, di una realtà, di una scena o di un soggetto che pure conosciamo bene, scopriamo delle cose che non avevamo mai notato? Proprio perché la fotografia riesce a valorizzare aspetti, e ripeto, riesce a far emergere questo fondo di realtà che troppo spesso sfugge all’osservazione comune.

È possibile analizzare filosoficamente la messa in scena fotografica con Norman Howell? Stuntman e attore che recitò con John Wayne nel film “I Cowboy”. Lo scatto è stato realizzato a Los Angeles, con luce di taglio uso montagne come fondale e la “Hollywood Sign” come riferimento. Norman è protagonista al centro del Bronson Canyon.

Da un certo punto di vista fotografia e filosofia hanno una base comune, cioè entrambi si riferiscono alla realtà e vogliono cogliere questa realtà nei suoi aspetti costitutivi, nei suoi principi fondanti, sono inclini a non fermarsi all’aspetto puramente superficiale della realtà ma andare a fondo, comprendere quali siano singolarmente le forme che danno consistenza alla realtà che osserviamo. Nel caso di questa fotografia, emerge a mio giudizio in maniera molto limpida, un aspetto che può sembrare paradossale: questo è quello che credo tecnicamente nel linguaggio cinematografico si chiami fermo immagine, e come vediamo è un fermo immagine anche abbastanza curioso. La sagoma di quest’ uomo, del cowboy, è librata nello spazio, è colta e fissata in un momento specifico, ma in realtà in primo piano è la pistola e questa immagine – questo fermo immagine – è provvisto di uno straordinario dinamismo, cioè non è affatto immobile cosi come sembra, anzi senza eccessiva difficoltà, possiamo ricostruire la storia, possiamo comprendere che cosa è accaduto. Questa immagine è come dire, un momento che immobilizza ma solo transitoriamente un processo, una dinamica. La pistola in primo piano c’è e lo fa capire in maniera molto evidente, ma noi, come osservatori di questa immagine, già sappiamo che quel corpo, che per il momento si libra nell’aria, sta per cadere per terra, possiamo intuirne il movimento, possiamo intuire sia la dinamica che ha portato questo corpo ad essere librato per aria sia ad intuire che cosa accadrà. In qualche misura questa foto, che vorrebbe essere solo del presente, contiene in sé il passato e contiene in sé il futuro.

Riuscire a far vedere qualcosa che ha prima vista non si vede. Con una sola fonte di luce naturale creo tre differenti scenari fotografici: sovraesposta, esposizione corretta e l’oscurità dell’ombra.

E certo, guardi soprattutto gli accorgimenti che lei ha indicato e che mi sfuggono come profano di questa importante arte che è l’arte fotografica. Ma soprattutto mediante questi accorgimenti, ciò che mi pare colpisca è che questa immagine sembrerebbe essere un’immagine che cancella il tempo, ma in realtà riesce a interiorizzare il tempo. È quasi scandita in tre fasi temporali diverse proprio mediante l’impiego di quei accorgimenti di carattere tecnico di cui lei parlava. Da questo punto di vista la sua arte fotografica mi ha convinto di un punto sul quale non avevo fatto particolare attenzione finora , e cioè il rapporto tra fotografia e tempo. La concezione abituale, l’opinione diffusa, è che la fotografia annulli il tempo, lo cancelli, lo distrugga, ma in realtà lei mi ha mostrato una serie di esempi in cui invece al contrario la fotografia riesce ad evidenziare tutte e tre le dimensioni temporali, ed è un aspetto che trovo molto interessante.

Realizzando una foto metti dentro praticamente tutto quello che hai imparato: trovare il soggetto, cosa fotografare, come fotografarlo. E io sono spinto a fare sempre meno fotografie, meno fotografie che però possano esprimere qualcosa, un pensiero.

Guardi, lapidariamente, un grande filosofo contemporaneo come Ludwig Wittgenstein, concludeva la sua opera fondamentale, che resta un’opera centrale in tutto il pensiero del 900, con un’affermazione lapidaria: ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Ecco io credo che in fondo questa sua sorta di ascesi dalla fotografia, cioè questo ridurre sempre a meno, all’essenziale, è anche un modo per riconoscere che ciò che non si può fotografare non si deve fotografare. Cioè resta questo margine indecifrabile e in qualche modo misterioso, che è uno degli aspetti costitutivi della realtà nella quale viviamo.

Umberto Curi è professore emerito di Storia della filosofia presso l’Università di Padova e docente presso l’Università “Vita e salute” San Raffaele di Milano. È stato visiting professor presso numerosi atenei europei e americani. https://www.facebook.com/curiumberto/

Ivan Cerullo, Fotografo. Realizza progetti fotografici speciali, messe in scena fotografiche e video che vedono protagonisti leggende del cinema e musica. https://www.facebook.com/CerulloIvan

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