Nel 2002 gli LCD Soundsystem (del cui ultimo disco abbiamo scritto qui) esordiscono con Losing My Edge, una canzone sulla nostalgia e il tramonto dell’hipster newyorchese che vuole resistere all’arrivo della nuova generazione destinata a essere “più figa” di lui. In quella canzone c’è una frase particolarmente significativa: «I hear that you and your band have sold your guitars and bought turntables/I hear that you and your band have sold your turntables and bought guitars». La musica pop, come ogni espressione culturale, segue un andamento ciclico e, come le maree, ogni tanto, batte in ritirata. Così come le nicchie, le micronicchie e le subculture vivono momenti di gloria e momenti di riflusso. È naturale, non si può essere on the edge per sempre. Certo, è un ritornello che si sente da tantissimo tempo (io, ad esempio, l’avrò già sentito almeno tre volte a cadenza quinquennale), ma forse è vero che negli ultimi anni la musica alternativa come abbiamo imparato a conoscerla – quella basata sulla chitarra elettrica distorta con una certa variabile di armoniche dispari, quel mix tra american indie e post punk anglosassone – sta vivendo una fase calante in cui sta dicendo poco e quel poco, ancorché molto bello, non sembra raccontare niente del mondo che viviamo. È già capitato, succede spesso quando un movimento fa così tanto successo da generare la sua stessa caricatura (per fare un esempio, il successo dei Nirvana che produce un sacco di gruppi fatti con lo stampino che facevano il verso ai Nirvana con contratti milionari direttamente con le multinazionali). È la stilizzazione: la replica di un modello all’infinito ne fa perdere efficacia e significato.
È però sbagliatissimo dire che nella musica non sta succedendo più niente di interessante. Perché quello che siamo soliti intendere come “musica” è in realtà frutto di una lettura coloniale dell’industria culturale. Una visione bianca, patriarcale, imperialista e formata da canoni codificati. Quando diciamo – un po’ lamentandoci, un po’ consolandoci e rifugiandoci nella nostalgia – che nella cultura di oggi non sta succedendo niente, semplicemente, stiamo guardando dalla parte sbagliata.
Le giornate torinesi di Club To Club hanno confermato una cosa che detta così può sembrare molto provocatoria ma, se ci pensate, non è priva di fondamento. Perché se il senso profondo della musica indie è sempre stato l’attacco al sistema dominante, la sovversione dei canoni prestabiliti, la proposta di nuovi modelli (organizzativi, industriali, culturali e anche stilistici) capaci di filtrare dentro e flirtare con il mainstream allora quello che sta succedendo nella musica che per comodità potremmo definire elettronica, ma che in realtà è più sperimentale o “avant-pop” (come da definizione del festival), è quanto di più indie ci sia. Se il modello alternativo tradizionale sta vivendo una fase conservativa – tipica delle culture a fine ciclo – quello che sta nascendo alle periferie, anche geografiche, dell’Impero sta dimostrando ambizione e volontà di raccontare quello che sta succedendo oggi e provare a immaginare quello che sarà il mondo di domani.
È però sbagliatissimo dire che nella musica non sta succedendo più niente di interessante. Perché quello che siamo soliti intendere come “musica” è in realtà frutto di una lettura coloniale dell’industria culturale. Una visione bianca, patriarcale, imperialista e formata da canoni codificati. Quando diciamo – un po’ lamentandoci, un po’ consolandoci e rifugiandoci nella nostalgia – che nella cultura di oggi non sta succedendo niente, semplicemente, stiamo guardando dalla parte sbagliata
Non stiamo parlando di una scena. Non ci sono proclami e manifesti politici dietro anche se qualche anno fa Valerio Mattioli ha cercato di legare tutti questi movimenti alla filosofia accelerazionista e una delle etichette più importanti, la londinese Hyperdub, è stata ispirata dalla lezione di Mark Fisher, filosofo ossessionato dalla nostra ideologia nostalgica e che ha racchiuso nella nozione di hauntology l’idea che la cultura contemporanea fosse sostanzialmente al palo (la nostalgia del futuro perduto).
È però evidente che dietro i lavori di artisti come – solo per citarne alcuni e tutti presenti alla kermesse torinese, ma potremmo farne molti altri perché il discorso è lunghissimo – Arca, Amnesia Scanner, Nicolas Jaar e gli italiani Mana e Lorenzo Senni si possono cogliere frammenti sonori di una storia comune. È la traduzione in musica di un idem sentire, il rendere in note le tensioni profonde di una società divisa per caste e per classi rinnovate (come ci ha raccontata Marta Fana: la lotta di classe è più viva che mai), il ruolo predominante della finanza, degli algoritmi e degli automatismi robotizzati, la pervasività degli strumenti informatici e la messa in discussione del “corpo” come costruzione di senso da cui parte e finisce qualsiasi discorso sull’umano. Come scritto qualche giorno fa, sono tempi di ritorno della distopia.
Forse è vero che stiamo attraversando la crisi della cultura bianca e quando qualcosa è in crisi, c’è sempre un’altra forma pronta a rimpiazzarla. Quello che sta succedendo nel mondo della musica è semplicemente lo spostamento di un rapporto di forza (esattamente come sta succedendo nella politica).
Un tempo si prendeva in mano una chitarra pensando di poter cambiare il mondo. Adesso si costruiscono al computer mondi e racconti sull’impossibilità di poterlo anche solo pensare. E quello che ne esce è un tornado di suoni glaciali e inesorabili, un labirinto di suggestioni e indizi che non permettono una visione d’insieme se non legando, creativamente, tutti i vari frammenti. Non a caso si è passati da una dimensione collettiva di gruppo e di comunità (le etichette indipendenti americane funzionavano proprio come hub per la costruzione di reti locali in determinate città proprio per offrire un modello industriale alternativo e creare un network sociale) a quella dell’artista singolo che collabora ma tiene salda la sua personalità, che è la cosa più importante di tutte. Una riscossa da quella solitudine del cittadino globale da cui già nel 1999 uno Zygmunt Bauman pre-fase liquida ci metteva in guardia. Non a caso questi artisti vengono da zone periferiche rispetto all’asse Londra-New York. Arca è venezuelano, Nicolas Jaar è cileno; Lorenzo Senni e Daniele Mana italiani.
Un’altra caratteristica della musica alternativa è sempre stata quella di rappresentare uno shock rispetto ai canoni codificati. Sia dal punto di vista sonoro, sia dal punto di vista estetico. E il rock, diciamocelo pure, questo tipo di shock, in questo momento non è in grado di offrirlo. Potrà sempre offrire grandissime canzoni e grandissimi dischi, ma per qualche tempo sarà destinato a testimoniare in attesa del suo prossimo ciclo. Lo shock, oggi, sta da un’altra parte. Nello spettacolo di Arca, ad esempio. Che è forse quanto di più sfidante, affascinante, opprimente e violento si possa assistere oggi tra assalti sonori, abissi di disagio emotivo e psichico passando da vere e proprie esplosioni sonore a pezzi praticamente muti, visuals lividi e epilettici che passano dal cannibalismo rettile a pratiche di sesso estremo su schermi enormi mentre le canzoni parlano di sessualità, di corpo, di confini e di limiti. Sembra la descrizione di un living theatre fuori tempo massimo, ma qui non c’è nessuna provocazione, non c’è niente di gratuito: è un discorso coerente che sta cercando di immaginare il suono del mondo di domani. E se un’artista sempre interessata all’innovazione come Björk ha deciso di collaborare con lui già da qualche anno, un motivo ci sarà.
Forse è vero che stiamo attraversando la crisi della cultura bianca e quando qualcosa è in crisi, c’è sempre un’altra forma pronta a rimpiazzarla. Quello che sta succedendo nel mondo della musica è semplicemente lo spostamento di un rapporto di forza (esattamente come sta succedendo nella politica). Da un genere all’altro, l’importante, è non interrompere il movimento e non ripiegarsi in se stessi. Quello che stanno facendo oggi questo tipo di artisti sarà patrimonio per quello che rimarrà dell’umanità di domani.