Il Regno Unito sta vivendo la sua tempesta perfetta. Nel giro di una settimana il parlamento, il governo, l’economia inglese e perfino la regina sono finiti contemporaneamente sotto attacco mediatico e forse arriverà presto anche quello giudiziario. Ma questa volta la Brexit non c’entra nulla, o quasi.
Ieri l’inchiesta Paradise Papers è stato l’ultimo episodio di una settimana terribile per Londra. Il Suddeutsche Zeitung ha condiviso con l’International Consortium of investigative journalists, un network di 200 giornalisti investigativi in oltre 70 paesi più di 13,4 milioni di file che provano investimenti legali e non in società offshore con sede in almeno 19 paradisi fiscali. Il ministro del commercio Usa Wilbur Ross, il cantante degli U2 Bono Vox, il pilota di Formula 1 Lewis Hamilton sono tanti i personaggi coinvolti. Tra questi anche la regina Elisabetta II che secondo i file pubblicati avrebbe investito almeno 10 milioni di sterline in fondi offshore nelle isole Cayman e Bermuda. Chiariamo: materialmente la regina non ha fatto nulla; è Chris Adcock, il manager del fondo del Ducato di Lancaster che dal 1399 si occupa di mantenere i reali inglesi a decidere come investire la rendita della regina. L’operazione finanziaria non è nemmeno illegale. La regina poi, avrà il diritto di aiutare l’economia delle sue ex colonie, si dirà. Ma quando si parla di istituzioni la forma è sostanza. E la Regina Elisabetta ha fatto della sua intera carriera politica una questione di forma, riuscendo a passare indenne alle crisi peggiori: dalla morte di Lady Diana al terrorismo nordirlandese. Ora vedere il simbolo del Regno Unito coinvolto in un’operazione che di solito si associa a finanzieri spietati ed evasori fiscali è il colpo più duro alla credibilità del Regno Unito.
Senza contare che uno dei fondi della regina controlla le azioni della Brighthouse, società accusata di azioni speculative a danno dei consumatori inglesi. Anche per questo Jeremy Corbyn ha chiesto alla regina di scusarsi. Lo ha fatto in maniera indiretta, come l’understatement britannico insegna: «Tutti quelli che hanno messo soldi nei paradisi fiscali dovrebbero fare due cose: non solo scusarsi ma ammettere quello che questo comporta per la nostra società». Traduciamo noi il politichese per voi: anche la regina deve pubblicamente dire di aver sbagliato. Non era mai successa prima una cosa del genere. Ma la situazione lo richiede.
Il problema dei Paradise papers non è solo un imbarazzo per la Regina Elisabetta II; è anche l’ennesima strada senza uscita per il governo inglese, indeciso su come risolvere l’uscita dall’Unione europea. Theresa May e il ministro delle finanze Philip Hammond hanno minacciato più volte Bruxelles di voler diventare un paradiso fiscale in caso del fallimento del negoziato Brexit. Abbassare drasticamente le tasse per attirare investimenti stranieri in caso è visto da molti come la soluzione migliore per un mancato accordo. La posizione intransigente a inizio anno, è diventata con il passare dei mesi sempre più un’opzione da scartare. E i paradise Papers rischiano di esserne la pietra tombale. Con uno scandalo del genere un’altra opzione se ne va. E ne rimangono sempre meno.
Dopo un accordo con il partito unionista nordirlandese che ha regalato una fragile maggioranza e compromesso ancora di più i negoziati Brexit, soprattutto quando si parlare di confine con l’Irlanda. Dopo una serie di scivoloni politici dei suoi ministri, tra cui Boris Johnson che ha dichiarato ieri che le sue battute sono uno strategico mezzo diplomatico (giuriamo, ha detto proprio così), Theresa May si trova ad affrontare un altro caso che rischia di farle davvero abbandonare Downing Street.
Anche l’ipotesi di un rafforzamento della special relationship con gli Stati Uniti potrebbe essere a rischio. Il ministro del commercio statunitense Wilbur Ross, lo stesso coinvolto nello scandalo Paradise Papers, ha avvertito il governo inglese: per concludere un accordo commerciale con Washington Londra dovrà rinunciare a molte norme sanitarie finora imposte dall’Unione europea. Per dirne una,anche quella del pollo clorurato. Forse per capire cos’è il pollo clorurato ci vuole un genio, ma non è necessario un dottorato in economia per capire che se May vuole sperare di rimanere almeno nel mercato unico, dovrà rispettare tutte le normative sulla tutela degli alimenti di Bruxelles.
Basterebbe lo scandalo Paradise Papers a rendere poco credibile una nazione. Figuriamoci se avviene a pochi giorni da un altro caso che ha dato una bella scossa alla politica inglese. Parliamo delle tante accuse di molestie sessuali nei confronti dei parlamentari conservatori e ministri del governo May. Una settimana fa The Sun, il quotidiano di Rupert Murdoch, ha rivelato l’esistenza di un gruppo whatsapp dove deputate e assitenti parlamentari denunciavano i continui abusi di colleghi e superiori in Parlamento. Finora si è dimesso il ministro della difesa Michael Fallon, scusandosi di aver appoggiato la sua mano sulle ginocchia della giornalista Julia Hartley-Brewer nel 2002. Ma nello scandalo sono coinvolti anche il ministro della giustizia Dominic Raab, e quello del commercio Mark Garnier, che ha ammesso di aver chiesto ala sua segretaria di comprare per lui dei sex toys, dopo averla chiamata “tette di zucchero”. Molte donne hanno accusato di abusi sessuali anche il First secretary of State Damian Green e Stephen Crabb ex ministro del lavoro. Entrambi negano. In pratica, metà del governo è coinvolto, compresi almeno altri tredici deputati. Ora, dopo elezioni anticipate che dovevano essere un trionfo e hanno fatto perdere seggi e consenso ai conservatori. Dopo un accordo con il partito unionista nordirlandese che ha regalato una fragile maggioranza e compromesso ancora di più i negoziati Brexit, soprattutto quando si parlare di confine con l’Irlanda. Dopo una serie di scivoloni politici dei suoi ministri, tra cui Boris Johnson che ha dichiarato ieri che le sue battute sono uno strategico mezzo diplomatico (giuriamo, ha detto proprio così), Theresa May si trova ad affrontare un altro caso che rischia di farle davvero abbandonare Downing Street.
La premier ha ben chiara la situazione. May ha detto ieri che ci sono ancora più casi di abusi di quelli finora scoperti dalla stampa inglese e ha annunciato una commissione bipartisan per indagare sugli abusi sessuali chiedendo pubblicamente ai suoi di attuare “una cultura del rispetto”. May ha aggiunto che ci sono ancora più casi di quelli citati dalla stampa. E il suo governo rischia di cadere su questo tema.
Corona, Parlamento, governo in crisi. Londra però deve fare i conti anche con l’economia. Oggi Carolyn Fairbairn, capo dell’associazione degli industriali inglesi, ha detto che il 60% delle aziende britanniche si sta già attrezzando per gestire l’emergenza economica in caso di un mancato accordo nel marzo 2019, scadenza ultima per il negoziato Brexit. Un messaggio diretto, forte, che viene dal principale azionista dell’elettorato conservatore. Un monito, come se ce ne fosse bisogno, a Theresa May per avere certezza e chiarezza su cosa succederà. Nel frattempo Banca d’Inghilterra ha alzato dello 0,5% i tassi d’interesse. Non accadeva da dieci anni. Una mossa che va in controtendenza rispetto alle attese. L’economia inglese non cresce, l’inflazione è salita al 3%. Di solito si alzano i tassi d’interesse quando accade il contrario. La mossa della Bank of England sembra un tentativo per rassicurare i mercati.
Solita propaganda pro Ue che giudica in modo partigiano l’economia inglese? Non proprio. Ci sono almeno 58 studi commissionati dal governo sugli effetti della Brexit che ancora non sono stati pubblicati. Sono lì, pronti per essere analizzati dall’opinione pubblica. Ma il governo si rifiuta di mostrarli, nonostante le pressioni del Parlamento.La London School of Economics ha anticipato il governo pubblicando ieri uno studio secondo cui sono i consumatori della classe media pagare di più l’incertezza dopo il voto del 23 giugno 2016. Secondo la relazione nel periodo pre referendum c’è stata una crescita costante degli stipendi dei lavoratori dopo la crisi del 2007/2008, grazie alla bassa inflazione. Ma dopo il voto i prezzi sono aumentati a dismisura soprattutto per quanto rigurarda gli alimenti: «Le famiglie a basso reddito spendono una percentuale più elevata del proprio reddito sugli alimenti rispetto alle famiglie ricche».