Piano con l’entusiasmo, la strada per l’esercito europeo è ancora lunga

La Permanent Structured Cooperation rappresenta un enorme passo in avanti per l'Unione Europea, che vuole inoltre istituire un Fondo europeo per la difesa. Ma il progetto è solo all'inizio e non tutti gli Stati membri hanno aderito

Lo scorso 13 novembre è nata la cooperazione strutturata permanente in materia di difesa comune, abbreviata in Pesco (Permanent Structured Cooperation). Hanno firmato la notifica al Consiglio e all’Alto rappresentante UE ben 23 Stati membri su 28, tutti tranne Regno Unito, Danimarca, Malta, Irlanda e Portogallo. Il passaggio successivo, che sancirà la nascita ufficiale della Pesco, dovrebbe essere compiuto l’11 dicembre, al prossimo Consiglio Affari esteri. Si tratta sicuramente di un importante passo in avanti per l’Unione europea, ma sarebbe sbagliato esagerarne la portata. Vediamo il perché.

Innanzitutto siamo in ritardo. La possibilità di instaurare una cooperazione strutturata permanente in ambito di politica estera è prevista già dal primo dicembre 2009, quando entrò in vigore il Trattato di Lisbona. Non è stata sfruttata finora principalmente per le resistenze della Gran Bretagna, che tuttavia non aveva giuridicamente un potere di veto sulla questione. Il Consiglio infatti, che deve adottare la decisione che istituisce la cooperazione strutturata, decide sulla materia a maggioranza qualificata. Dopo la Brexit è comunque divenuto “politicamente” più facile per gli altri Stati procedere su questa materia, complice anche il progressivo spostamento del baricentro strategico statunitense dall’Atlantico verso il Pacifico e la crescente necessità per l’Europa di diventare meno dipendente dagli Usa per la propria sicurezza.

Il contenuto, poi, di questa cooperazione rafforzata è strettamente inter-governativo e non comunitario. Il pallino dell’azione resta cioè in mano agli Stati membri, e non alle istituzioni comunitarie. Le decisioni non saranno prese a maggioranza, e dunque vincolanti per tutti i partecipanti, ma ogni Stato potrà sempre decidere se ritirarsi (o aderire in un secondo momento) alla Pesco. Si tratta dunque di uno strumento che dovrebbe consentire una miglior cooperazione tra Stati, un maggior coordinamento – in particolare nell’intraprendere missioni militari, specialmente su richiesta dell’ONU -, e incentivare ricerche e investimenti comuni. Allo scopo sul piatto vengono messi anche alcuni fondi. In particolare con l’avvio della Pesco nasce anche il Fondo europeo per la difesa, proposto dalla Commissione europea nello scorso giugno: dal 2021 l’Ue potrà stanziare ogni anno 500 milioni di euro per finanziare progetti di ricerca comuni per lo sviluppo di tecnologie avanzate nel settore della difesa e della sicurezza, più 1 miliardo di euro l’anno per cofinanziare l’acquisizione di capacità operative.

Potremmo dire che la Pesco è una premessa (ancora da portare a compimento oltretutto). Sotto il suo “cappello” saranno poi gli Stati a decidere quanta efficacia ed importanza attribuirle. Se, a fronte delle emergenze che la geopolitica internazionale continua a partorire, si inizieranno a creare per davvero delle “missioni europee” gestite in associazione con l’Alto rappresentante UE; se nasceranno iniziative industriali-militari congiunte di rilievo (e la questione dei cantieri francesi Stx parzialmente acquisiti da Fincantieri, e controllati sia dall’Italia che dalla Francia, potrebbe essere un’interessante cartina tornasole); se, compiuto il primo passo, gli Stati partecipanti decideranno di proseguire su questo stesso cammino, allora si potrà dire se l’embrione attuale di difesa comune europea sta crescendo o se è destinato ad un aborto spontaneo.

Una premessa dell’eventuale successo – e qui si appuntano le preoccupazioni maggiori – è un elevato grado di visione comune tra gli Stati membri. Non potendo infatti contare sul metodo comunitario, le capitali europee avranno l’onere di trovare accordi operativi tra di loro, altrimenti la Pesco risulterà praticamente inutilizzata. Il fatto che tra i 23 Stati firmatari compaiano anche quelli governati da partiti e presidenti maggiormente euroscettici (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e non solo) è una spia evidente del fatto che la Pesco non comporti di per sé un più alto grado di integrazione europea. Quella è però la sfida a cui è chiamato a rispondere il Vecchio Continente.

Dopo la vittoria di Macron in Francia, la riconferma di Merkel in Germania, e vista la posizione favorevole della maggior parte degli Stati dell’Europa occidentale (Italia e Spagna in testa), il prossimo quinquennio potrebbe essere una legislatura “costituente” per una nuova Unione europea, dotata di maggiori poteri nei confronti degli Stati membri. La politica estera, con ogni probabilità, sarà l’ultima materia che gli Stati nazionali saranno disposti a “cedere” a Bruxelles, e una rinuncia al potere di veto delle singole capitali non è nemmeno all’orizzonte. Saranno allora le altre materie – economiche, sociali, fiscali e via dicendo – a far capire se davvero la UE verrà messa in condizione dai suoi Stati membri di procedere a una maggiore integrazione. Qui, sempre secondo le previsioni attuali degli analisti, si consumerà la frattura con quegli Stati che non vogliono tale maggiore integrazione.

Paradossalmente solo dopo aver consumato, eventualmente, un simile strappo e aver ridotto a un “nocciolo duro” i partecipanti della prossima fase dell’integrazione europea sarà possibile dare contenuto e significato pieno alla Pesco. Un gruppo di Stati con una politica economica, fiscale, monetaria, bancaria e industriale comune ha maggiori probabilità di avere interessi coincidenti anche in politica estera, e di volerli perseguire congiuntamente. Un gruppo di Stati fratturato – ad esempio tra chi vuole esasperare lo scontro tra Nato e Russia e chi invece preferirebbe una trattativa con Mosca, o ancora tra chi vuol gestire l’emergenza immigrazione e chi la vuole confinare militarmente al di fuori delle proprie frontiere – è molto probabilmente destinato a trovare accordi solo su aspetti di poca importanza anche in politica estera.

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