Una nazione di impoveriti, impauriti e rancorosi. Così il Censis nel suo ultimo rapporto sulla situazione sociale del Paese ha ritratto impietosamente l’Italia. Che sì, sta tornando a crescere, ma che fatica tremendamente ad adeguarsi alla sua nuova normalità, una normalità in cui isole felici non esistono più, in cui la speranza di un ascensore sociale che sale è stata sostituita dalla paura di un terreno che smotta sotto i piedi e che fa scivolare inesorabilmente verso il basso.
«È una zona grigia di soggetti vulnerabili, questa, in cui il welfare tradizionale, quello dei servizi sociali pubblici, fatica a intevenire: – spiega Gino Mazzoli. Membro del Consiglio Generale della Fondazione Manodori di Reggio Emilia, psicosociologo, Amministratore delegato di Studio Praxis, esperto di welfare e processi partecipativi – un licenziamento in famiglia, spese impreviste, malattie, anche solo un figlio inatteso possono essere fattori che conducono a un impoverimento pericoloso ». Pericoloso, soprattutto per un motivo: «Perché sono persone che stanno affrontando una condizione di fragilità mai vissuta prima, e che non accettano di sentirsi povere, faticano a entrare nella dimensione della richiesta d’aiuto, ad andare alla mensa dei poveri o a rivolgersi al Comune o agli assistenti sociali. E in questo modo, decine di situazioni a rischio rimangono nascoste, sotto la cenere. Tanto più in contesti sociali in cui la dimensione comunitaria si è persa, in cui nessuno sa nemmeno chi è il suo vicino di casa».
La parola magica per provare a entrare in questa zona grigia, per conoscere i problemi e provare a risolverli, si chiama welfare di comunità, una modalità di progettazione sociale che chiama in causa la partecipazione della cittadinanza attiva. Progetti, per spiegarla con le parole dello stesso Mazzoli, «in cui i membri della comunità sono chiamati sia a fare da antenne che recepiscono i bisogni e le nuove fragilità, sia da agenti di comunità che con il loro lavoro volontario concorrono a risolvere il problema». Progetti, infine, il cui gli stessi vulnerabili, non più semplici destinatari, diventano parte attiva del progetto stesso e collaboratori da attivare.
La parola magica per provare a entrare in questa zona grigia, per conoscere i problemi e provare a risolverli, si chiama welfare di comunità, una modalità di progettazione sociale «in cui i membri della comunità sono chiamati sia a fare da antenne che recepiscono i bisogni e le nuove fragilità, sia da agenti di comunità che con il loro lavoro volontario concorrono a risolvere il problema»
È una pratica che siamo abituati a chiamare innovazione sociale, «che è diventata realtà in molti contesti, da Parma a Trento ma anche nel contesto della più grande fondazione italiana impegnata nel sociale, la milanese Fondazione Cariplo, che con le tre edizioni del bando Welfare in Azione ha finanziato 27 progetti, per un totale di 263 organizzazioni coinvolte, 30,4 milioni di euro di contributi deliberati a fronte di un costo complessivo pari a 67 milioni di euro». Una pratica che è sbarcata anche a Reggio Emilia, per tramite della Fondazione Manodori, che ha promosso il bando Welcom, crasi di welfare di comunità. Un processo promosso dalla Fondazione che ha valutato i progetti, mettendo al lavoro i soggetti che avevano avanzato le loro proposte e le loro idee, facendo nascere tre nuovi laboratori e cinque nuovi progetti, ognuno dei quali risponde a uno specifico bisogno di un pezzo di territorio reggiano.
Ci sono i tre progetti del laboratorio Incontri Ravvicinati, ad esempio, accomunati dall’obiettivo di intercettare le vulnerabilità sociali, come Comunità in Ascolto, che intende sperimentare strategie innovative per intercettare chi è finito nella zona grigia, allestendo una rete informale di aggancio che coinvolge parrucchiere ed edicolanti, «vere e proprie antenne sociali che non sanno di esserlo, e che possono aiutare a capire quali siano le situazioni sociali critiche e le persone che vi sono coinvolte». O ancora il progetto WEinACT, che si concentra sull’aggancio dei vulnerabili nei contesti abitativi, «casa per casa, quartiere per quartiere, condominio per condominio, andando a prendere le persone nei luoghi dove trascorrono la maggior parte del loro tempo extra lavorativo». Un progetto, questo, importante proprio perché ricostruisce le precondizioni di una buona azione di welfare: la rigenerazione dei rapporti di buon vicinato, sperimentazioni di interventi educativi di condominio, progetti di co-housing. O ancora, progetti come quello intitolato a Famiglie, aziende rurali e comunità, volto a superare le vulnerabilità che incontrano i contadini che lavorano e vivono in montagna. O ancora, progetti come Impossibile (senza I e senza M) che mira a creare una cooperativa di comunità in ambito urbano. O ancora il progetto che si pone l’obiettivo di facilitare il mantenimento dei posti di lavoro o il reinserimento lavorativo dei pazienti oncologici.
«Sono tutti progetti che nascono e si sviluppano da processi di collaborazione tra soggetti che avevano portato altre idee e che abbiamo messo al tavolo assieme a lavorare su ambiti nuovi, chiedendo loro di pensare a nuovi bisogni, nuove soluzioni, nuovi modi di raggiungere i loro obiettivi», spiega Mazzoli. Di fatto, creando i presupposti di un welfare nuovo, nel “cosa” e nel “come”, in un contesto come quello reggiano, che a suo modo è esso stesso, per definizione, un laboratorio sociale.