Basta pensare all’Ema. Piuttosto, non facciamoci fregare sul prossimo bilancio europeo

I tagli nel bilancio europeo potrebbero attestarsi dal 10-15% al 30%, in un numero di politiche tradizionali come coesione e agricoltura. Potrebbe essere una catastrofe per i territori, specialmente quelli del Sud. Ma attenzione: una parte dei giochi si sta facendo ora

Basta rimuginare sull’Ema e la sorte beffarda che ha voltato le spalle alla candidatura di Milano. C’è una prova diplomatica ben più decisiva che attende il nostro governo al varco nei palazzi di Bruxelles. Parliamo della negoziazione sul prossimo Quadro Finanziario Pluriennale, cioè il bilancio dell’UE post 2020. E del rischio che l’Italia perda una fetta non trascurabile di finanziamenti europei al confronto della quale il rimpianto indotto dell’Agenzia europea del farmaco impallidirebbe.

Alcuni media nei giorni scorsi hanno acceso un faro sugli scenari allo studio in Commissione Europea. L’uscita di scena del Regno Unito, cui si somma la necessità di indirizzare più risorse verso la gestione di nuove sfide (immigrazione e difesa), impone un ragionamento all’insegna della austerità sulle finanze future dell’UE. La coperta è più corta e la Commissione si troverebbe costretta a presentare in maggio una proposta di bilancio caratterizzata da tagli più o meno profondi, dal 10-15% al 30%, su un numero di politiche tradizionali: su tutte coesione e agricoltura. Riguardo la prima, l’Italia potrebbe vedersi privata dopo il 2020 di una quota di fondi strutturali europei che va da 12 a 42 miliardi (cioè l’intera dotazione attuale). Sarebbe una catastrofe per i territori italiani, specialmente quelli del Sud, visto che questi finanziamenti sono in larga parte assegnati alle regioni. Dei 53 miliardi medi annui di spesa in conto capitale della PA, tra il 2000 e il 2016, circa 17 provengono in larga parte da risorse comunitarie aggiuntive. Nel Mezzogiorno questo rapporto è ancora più marcato: si tratta di 10 miliardi su 19. Quanto alla politica agricola comune, le ipotesi elaborate in Commissione prevedono per l’Italia una stangata dai 3,4 ai 9,7 miliardi di euro rispetto alla dotazione attuale. Insomma, non si tratta di briciole. Ma non è il caso (non ancora almeno) di cedere al panico.

Gli scenari elaborati fin qui dalle direzioni della Commissione Europea sono consapevolmente esagerati proprio per sventolare tatticamente sotto il naso del partito delle forbici, leggi paesi europei del nord, gli effetti nefasti che potrebbero produrre. Non è quindi detto le ipotesi di tagli più drastici trovino spazio nella proposta finale di maggio. Inoltre, il commissario europeo al bilancio Günther Oettinger sta lavorando contestualmente ad una proposta di revisione del sistema delle risorse proprie (quelle entrate di bilancio “indipendenti” dagli stati membri) per ammortizzare l’entità dei tagli con risorse provenienti da nuove fonti. Il Parlamento Europeo e lo stesso Jean-Claude Juncker sembrano, addirittura, favorevoli ad aumentare la dotazione complessiva del bilancio. Infine: una parte dei miliardi eventualmente persi su alcuni programmi l’Italia li recupererebbe attraverso nuovi strumenti di finanziamento (anche se questo non salverebbe le nostre regioni). Ma i rischi restano elevati.

La Commissione si troverebbe costretta a presentare in maggio una proposta di bilancio caratterizzata da tagli più o meno profondi, dal 10-15% al 30%, su un numero di politiche tradizionali: su tutte coesione e agricoltura

L’ultima parola ce l’hanno gli stati membri e l’esperienza insegna che, anche in assenza del Regno Unito, molti governi desiderano chiudere su una soluzione minimalista, soprattutto sulle politiche a carattere redistributivo come quelle di coesione. La procedura di approvazione del Quadro finanziario pluriennale, tra l’altro, lascia non molti margini di manovra. Il Consiglio deve adottarlo all’unanimità e il Parlamento non può emendare il testo. Altrimenti detto: una parte dei giochi si sta facendo ora, in fase di scrittura della proposta. E’ dunque cruciale che l’Italia in questo frangente dia fondo a tutte le proprie risorse diplomatiche, se non lo sta già facendo. Per non vedersi poi costretta, come accaduto in altre situazioni, a negoziare al ribasso davanti al fatto compiuto. Le linee guida per una efficace azione di “lobbying” sono già state tracciate dal documento del governo sul Quadro finanziario pluriennale fatto adottare ad aprile scorso dal sottosegretario Sandro Gozi.

Il guaio è che siamo alle soglie di una campagna elettorale che si preannuncia estenuante, anticamera di un probabile periodo di instabilità, che potrebbe temporalmente protrarsi ben oltre la presentazione della proposta sul bilancio. E invece ci sarebbe bisogno non solo di una diplomazia martellante, ma anche di una leadership politica forte che s’impegni nei prossimi mesi a trattare con i capi di stato dei principali paesi e cavalchi pubblicamente una visione e delle proposte ambiziose. Fino a qui l’unica proposta di cui ci siamo fatti promotori è quella di legare l’erogazione dei fondi futuri al rispetto dei valori fondamentali: un’ipotesi difficile da applicare e che, nonostante le aperture della Germania, ha raccolto molte perplessità. Per il resto, c’è il concreto rischio di trovarci a inseguire, di fronte alle gioiose macchine da guerra già schierate da tempo da Germania, Francia, paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Rep. Ceca) per condizionare gli indirizzi del bilancio. Gli ultimi quattro governi, da Monti a Gentiloni, hanno profuso sforzi notevoli nel dare più al peso del sistema Italia a Bruxelles. Ma come ricordato in una recente intervista dal presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani c’è ancora molto da costruire rispetto ad altri paesi. L’auspicio è che un salto di qualità sarà fatto proprio sulla negoziazione del bilancio post 2020, nonostante la campagna elettorale sia alle porte.