Donald Trump, ritratto di un idiota geopolitico

La questione Gerusalemme capitale è solo un altro indice del fatto che The Donald non ha una strategia in politica estera. Cina, Nord Corea, Medio Oriente, le scelte di Trump rischiano di mettere davvero nei guai gli Usa su tutti i tavoli

Neanche dieci giorni prima dell’annuncio shock di Trump di voler spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme eravamo in un locale a Tel Aviv, commentando la dichiarazione del 28 novembre del vicepresidente Pence, secondo cui il presidente americano stava “seriamente considerando” una simile eventualità. “No, sarebbe troppo stupido”, ci dicevamo, “c’è troppo da perdere e troppo poco da guadagnare da una simile mossa”. Nemmeno due settimane dopo ci troviamo a commentare la decisione che speravamo essere troppo stupida per essere presa, mentre la temperatura in Medio Oriente sale pericolosamente.

La presidenza Trump si sta sempre più caratterizzando come quella di un “idiota geopolitico”, un leader senza una chiara strategia che seguendo il suo istinto (?) prende decisioni di cui evidentemente non gli sono chiare le conseguenze. È vero che il recente declino americano non è interamente imputabile a “The Donald”, e che hanno un grande rilievo gli errori di George W. Bush – tanto in Medio Oriente quanto in Asia – e quelli di Obama. Tuttavia per quantità e qualità quelli concentrati dall’attuale presidente Usa in circa un anno fanno pensare che, se è sciocco ritenere che Trump sia stato eletto grazie a oscure macchinazioni del Cremlino, certo un fantoccio messo lì dagli avversari dell’America difficilmente avrebbe saputo fare di meglio.

Partiamo dall’estremo oriente, da quell’area del Pacifico che secondo gli analisti di varie scuole e sensibilità politiche sarà il baricentro degli interessi strategici degli Usa nei decenni a venire. Dopo aver martellato ininterrottamente durante la sua campagna elettorale sulla Cina e sul pericolo cinese, uno dei primi atti di Trump è stato cancellare il TPP (Trans Pacific Partnership), un accordo commerciale che coinvolgeva quasi tutti i Paesi dell’area e escludeva Pechino. Una leva, insomma, economica e politica per accerchiare e indebolire la Cina. Cancellato quell’accordo Trump ha fatto un enorme regalo al suo avversario dichiarato e innervosito i suoi alleati della regione, che guardavano con favore al TPP. Adesso Pechino col suo progetto della “nuova via della seta” potrebbe sferrare un contrattacco che, se avrà successo, rafforzerà la posizione cinese (e indebolirà quindi quella americana) nell’intera Asia e non solo.

Sempre nell’area del pacifico Trump può poi intestarsi il “merito” di aver lasciato diventare la Nord Corea, lo “Stato eremita”, una potenza nucleare. Qui le colpe vanno di nuovo condivise con Bush figlio (che inserì Pyongyang nell’ “asse del male” con Iraq e Iran, e attaccò l’Iraq senza che avesse realmente “armi di distruzione di massa” come invece sostenuto) e con Obama, ma l’accelerazione attuale pare figlia dei toni muscolari del nuovo presidente. Toni, oltretutto, che non trovano corrispondenza nei fatti, in quanto gli Usa non hanno realisticamente un’opzione militare contro la Nord Corea che non preveda una strage di civili (e forse una catastrofe atomica). Adesso gli alleati d’area degli Usa guardano con meno fiducia alla protezione dei propri interessi da parte di Washington, e non è escluso che nel prossimo futuro si possa assistere a una corsa al riarmo atomico nei vari Paesi della regione. Per l’America, che punta a mantenere il club delle potenze nucleari quanto più esclusivo possibile, un’altra sconfitta.

Sempre nell’area del pacifico Trump può poi intestarsi il “merito” di aver lasciato diventare la Nord Corea, lo “Stato eremita”, una potenza nucleare

Veniamo quindi al Medio Oriente. Le praterie lasciate prima da Obama e ora da Trump hanno permesso alla Russia, che nel 2014 era un pugile alle corde per via dell’affare Crimea, di riaccreditarsi come una potenza e di intestarsi (insieme all’Iran) la vittoria contro lo Stato islamico. Ma dato per inevitabile questo indebolimento relativo degli Usa rispetto a Mosca, Trump è riuscito a peggiorare la situazione esasperando negli ultimi mesi lo scontro con Teheran e schiacciandosi sulle posizioni di Riad e Tel Aviv. Questa forzatura ha portato prima il Qatar a sganciarsi dall’Arabia Saudita e ad avvicinarsi proprio all’Iran, poi ha indispettito gli alleati europei che non vedono alcun motivo per interrompere la stagione di apertura nei confronti dell’Iran. La Repubblica Islamica sta infatti rispettando gli accordi contenuti nel “nuclear deal”, come peraltro certificato dall’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Anche gli alleati sunniti degli Usa – tranne l’Arabia Saudita e pochi altri – sono innervositi da questo clima di scontro fomentato da Washington. E in questo contesto già teso – dove peraltro gli Usa avevano molto indebolito, se non perso, già con Obama la sponda della Turchia – è arrivata come una bomba la decisione su Gerusalemme.

Grazie a questa mossa scriteriata gli alleati sunniti degli Usa si trovano in una posizione difficile rispetto alle proprie opinioni pubbliche e non si può escludere il rischio di un riacutizzarsi delle violenze. Non solo. Washington si troverà probabilmente in una posizione indebolita rispetto al passato per potersi accreditare quale potenza mediatrice nei futuri colloqui di pace per la questione israelo-palestinese, e in generale nelle trattative diplomatiche nella regione. La stessa Unione europea e i suoi Stati membri, che temono i rischi di una nuova esplosione di violenze ai propri confini orientali e non vedono di buon occhio un attacco al diritto internazionale, sono estremamente irritati dalla decisione di Trump.

Veniamo quindi al Medio Oriente. Le praterie lasciate prima da Obama e ora da Trump hanno permesso alla Russia, che nel 2014 era un pugile alle corde per via dell’affare Crimea, di riaccreditarsi come una potenza e di intestarsi (insieme all’Iran) la vittoria contro lo Stato islamico

Arriviamo così ai rapporti con l’Europa. La decisione su Gerusalemme è solo l’ultima goccia. Usa e Europa sono divisi anche sulla questione iraniana, sugli accordi di Parigi sul clima o su quelli Onu su migranti e rifugiati (“Global Compact”) da cui Trump ha di recente ritirato l’America. L’accelerazione europea verso una politica estera e di difesa comune – al momento ancora in fase embrionale – e la diffusa volontà in diversi Stati membri di arrivare ad una più stretta unione di popoli e Stati europei si sono sicuramente nutrite dello scollamento tra le due sponde dell’atlantico. Al netto delle rassicurazioni formali sul mantenimento del rapporto speciale tra Europa e Usa e sul perdurante ruolo della Nato, non si può non sospettare che gli Stati europei vogliano rendersi indipendenti da Washington soprattutto per potersi progressivamente smarcare da una linea di politica estera che condividono sempre meno e che sempre meno sembra fare i loro interessi. Sarà un percorso probabilmente lungo, ma la direzione di marcia sembra essere quella.

Insomma, dovendo fare un bilancio provvisorio, possiamo dire che le decisioni di Trump finora hanno prodotto un rafforzamento dei principali avversari degli Stati Uniti e hanno preoccupato e irritato i suoi alleati. Ne deriva una menomata capacità diplomatica di Washington, una minor fiducia da parte degli alleati – che iniziano a considerare linee divergenti da quella americana – e un generale appannamento dell’immagine degli Usa nel mondo. Specularmente la Cina viene vista sempre più come un interlocutore affidabile, la Russia come una potenza in ascesa e la stessa Europa come un laboratorio sempre meno influenzabile dall’America. Se non dalla mala fede, e non sembra sensato ritenerlo, la presidenza Trump è certo caratterizzata da un impressionante tasso di idiozia geopolitica.

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