Ecco perché ogni volta che compriamo prodotti contraffatti finanziamo la camorra

La contraffazione è il nuovo business della criminalità organizzata. Abbigliamento, audiovisivi, agroalimentare... Ormai è tutto in mano ai clan. A Montecitorio un’indagine della commissione di inchiesta illumina una realtà inquietante, che mette a rischio l’economia e la salute degli italiani

Il nuovo business dei clan è la contraffazione, camorra e ’ndrangheta si finanziano soprattutto così. Abbigliamento, audiovisivi, agroalimentare: tutto rigorosamente falso. Una montagna di merce che invade il mercato italiano senza controllo. Un flusso di denaro che arricchisce la criminalità organizzata a danno della nostra economia e della salute dei consumatori, non sempre consapevoli. A ricostruire i traffici che legano la malavita con il commercio di prodotti illegali è una lunga indagine svolta a Montecitorio dalla commissione di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale. Un lavoro di mesi che – con l’aiuto di esperti e forze dell’ordine – ha permesso di tracciare gli affari più redditizi delle organizzazioni mafiose.

Dietro al business della contraffazione si nasconde una miniera d’oro. Secondo i dati dell’Ocse ormai il 2,5 per cento di tutti gli scambi commerciali mondiali è costituto da prodotti falsi. Un giro di affari da 461,85 miliardi di dollari. Solo in Europa le importazioni di merce contraffatta riguardano il 5 per cento del totale, per un volume di 85 miliardi di euro. Inutile dire che l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Stando a una recente indagine del Censis, nel 2015 il fatturato della contraffazione nel nostro Paese ha sfiorato i 7 miliardi di euro. In netta crescita rispetto al passato. E così sul nostro mercato si riversano milioni di oggetti falsi: il settore dell’abbigliamento è quello maggiormente colpito, seguono il comparto degli audiovisivi, il materiale elettrico e i prodotti informatici. Ma uno spazio importante, e preoccupante, è riservato anche al mercato dei prodotti alimentari. Non sorprende sapere che i due principali paesi di provenienza della merce sono Cina e Hong Kong. Inaspettatamente, però, al terzo posto c’è la Grecia. «Il porto del Pireo – si legge nella relazione finale – controllato da società cinesi, date le lacune dell’azione di contrasto, può diventare una grande porta di accesso delle merci illegali in Europa».

Fiutato il business, la criminalità organizzata ha messo le mani sull’enorme giro di affari. Come ha spiegato la Guardia di Finanza in audizione, l’interesse è cresciuto esponenzialmente nell’ultimo decennio. Tanto che ormai quasi tutto il mercato è in mano alle mafie. Pochi dubbi a riguardo: «La criminalità organizzata – conferma il documento parlamentare firmato dalla relatrice Susanna Cenni – grazie anche al suo potere finanziario, intimidatorio e correttivo, gestisce tutte le fasi della filiera del falso, dalla produzione, alla spedizione, alla distribuzione, al dettaglio». E così nel giro di pochi anni il fenomeno della contraffazione ha vissuto un vero e proprio salto di qualità, passando da un’attività di livello artigianale a business di carattere globale. In questi mesi la commissione ha incontrato, tra gli altri, i rappresentanti dell’Europol e della Direzione nazionale antimafia, il Ros dei Carabinieri e i vertici delle Fiamme Gialle. Con l’aiuto di esperti è stato possibile ricostruire il flusso e le rotte dei prodotti illegali, dalla produzione all’arrivo nel nostro Paese. «Le merci contraffatte provenienti dall’area europea giungono prevalentemente attraverso i confini terrestri, mentre quelle di provenienza asiatica arrivano soprattutto via mare, in container, o con spedizioni aeree». Spesso, attraverso triangolazioni commerciali, i prodotti arrivano in Europa attraverso paesi diversi da quelli di effettiva destinazione. Da lì alle nostre case il passo è davvero corto. I canali della distribuzione interessano negozi al dettaglio, vendita ambulante, i mercati e le fiere campionarie, ma anche il circuito del commercio elettronico su internet. Alcuni dettagli sono particolarmente preoccupanti. La direzione nazionale antimafia, ad esempio, ha spiegato come in alcune aree del Paese i clan abbiano imposto «la vendita di merce contraffatta ad esercizi commerciali regolari, in sostituzione del pagamento del “pizzo”, ovvero siano state organizzate attività che vedono le organizzazioni criminali nel ruolo di grossisti in grado di offrire prodotti contraffatti insieme agli originali».

Fiutato il business, ’ndrangheta, camorra e mafia cinese hanno messo le mani sull’enorme giro di affari. Un interesse cresciuto esponenzialmente nell’ultimo decennio. Ormai quasi tutto il mercato è in mano ai clan. «La criminalità organizzata, grazie anche al suo potere finanziario, intimidatorio e correttivo, gestisce tutte le fasi della filiera del falso: dalla produzione, alla spedizione, alla distribuzione, al dettaglio»

Un ruolo di primo piano lo giocano camorra e ’ndrangheta. Come emerso in numerosi e recenti casi giudiziari, i clan di queste organizzazioni sono «dediti in maniera sempre crescente al traffico, talvolta anche alla produzione, di merci contraffatte». Un business gestito secondo le capacità e le caratteristiche delle varie organizzazioni criminali. È il Ros dei Carabinieri a offrire uno spaccato del fenomeno: «Mentre la camorra si occupa anche della produzione in loco di merce contraffatta, attraverso opifici clandestini dell’hinterland napoletano, avvalendosi anche di manodopera straniera, la ’ndrangheta, invece, opera secondo un approccio di spiccato pragmatismo imprenditoriale, proponendosi quale intermediario di servizi tra l’ambito della produzione e quello della vendita, ovvero come facilitatore per l’ingresso in Italia della merce contraffatta proveniente dall’estero». È innegabile che siano le organizzazioni di camorra la realtà più dinamica e attiva in questo genere di illeciti. Un’attività che, confermano i vertici della Guardia di Finanza, vede la diretta partecipazione dei vertici dei clan.

Una posizione particolare spetta invece alla criminalità cinese. È una realtà complessa, spesso rigidamente organizzata su base etnica. Come spiega la direzione antimafia, spesso i vertici decisionali rimangono nei territori di origine, mentre nei paesi europei vengono posizionate solo le “cellule terminali” impiegate nella ricezione e nello smistamento di stupefacenti, merce contraffatta e, non di rado, delle vittime della tratta di esseri umani. Nel nostro Paese la criminalità cinese è particolarmente attiva «nelle aree urbane ad alta industrializzazione: Firenze e Prato, Milano e l’hinterland di Napoli, in particolare l’area vesuviana». Attori in gioco per spartirsi il grande business del falso, quasi mai in competizione con le nostre organizzazioni criminali. Anzi, come si legge nella relazione, dalle indagini emerge che le realtà cinesi «si relazionano in modo non conflittuale e collaborativo con le associazioni di stampo mafioso e camorristico nazionali, con le quali hanno sviluppato vere e proprie sinergie delinquenziali». Non fanno eccezione organizzazioni africane a cui talvolta la criminalità asiatica affida la distribuzione al dettaglio della merce contraffatta. Discorso a parte, invece, per la mafia siciliana. Escluso il settore agroalimentare, Cosa Nostra sembra estranea ai principali flussi di contraffazione. Le cause sono da ricercarsi soprattutto nella mancanza di una tradizione criminale nel campo del falso, ma anche nella “scarsa propensione” – i carabinieri scrivono proprio così – a gestire relazioni con organizzazioni criminali asiatiche.

Ma perché la criminalità organizzata ha deciso di investire nella contraffazione? I vantaggi sono numerosi. C’è l’interesse a riciclare denaro in grandi quantità, la disponibilità dell’accesso alle grandi reti di movimentazione delle merci, già utilizzate per il traffico di stupefacenti e armi. Il controllo del territorio e la disponibilità di manovalanza, poi, rappresentano un indubbio vantaggio per la produzione e lo smercio dei prodotti falsi. Soprattutto, la contraffazione è un affare redditizio e poco rischioso. «L’Europol, in uno studio del 2015, ha stimato che un euro investito in stupefacenti può generarne 2.700 di profitto, a fronte di 40mila generati da un investimento in alimenti contraffatti o beni di largo consumo». Senza dimenticare la sostanziale differenza, a livello penale, tra l’illecito contraffattivo rispetto ai tipici reati cui sono dedite le organizzazioni criminali.

«Dai cosmetici e profumi contenenti alte percentuali di toluene e benzene, ai termocaloriferi assemblati con fibre di amianto; dai rubinetti che rilasciano il piombo ai giocattoli contraffatti contenenti ftalati». La contraffazione è un business miliardario che danneggia l’economia italiana, finanzia la ndrangheta e la camorra. Ma soprattutto mette a rischio la salute dei consumatori

E così la contraffazione diventa un fenomeno sempre più diffuso e pericoloso. A pagare il conto siamo tutti noi. C’è anzitutto una questione economica: come sottolinea il lavoro della commissione di inchiesta, in Italia il flusso di merce illegale ha causato una perdita di gettito fiscale pari a 5,7 miliardi di euro solo nel 2015. Inutile dire che la falsificazione dei marchi danneggia, in primo luogo, proprio i prodotti di qualità, quelli che costituiscono l’essenza del Made in Italy. Ma i rischi più gravi interessano soprattutto i consumatori, non sempre consapevoli. I danni alla salute derivanti da materiali di scarsa qualità, se non nocivi, sono evidenti. La relazione finale della commissione di inchiesta procede a un’inquietante rassegna dei rischi: «Dai capi di maglieria realizzati con “pelo di coniglio” in luogo del cachemire, ai cosmetici e profumi contenenti alte percentuali di toluene e benzene, ai termocaloriferi assemblati con fibre di amianto; dai rubinetti che rilasciano il piombo ai giocattoli contraffatti contenenti ftalati; dai gioielli contraffatti con un’alta concentrazione di nichel alle scarpe e alla pelletteria con anomale percentuali di cromo esavalente». Senza dimenticare le sigarette false, «con valori di catrame, piombo e arsenico centinaia di volte superiori alla norma».

Quello dei rischi per la salute è un problema che riguarda in particolare il settore agroalimentare. Un altro business miliardario che tocca da vicino gli interessi di Cosa Nostra, dei clan camorristici e delle ’ndrine calabresi. Stando ai dati del Censis, già nel 2010 il fenomeno assorbiva il 16 per cento di tutto il fatturato della contraffazione, una fetta di mercato illegale pari a circa un miliardo di euro. La commissione di inchiesta conferma: «I legami tra contraffazione nel settore agroalimentare e criminalità organizzata nazionale per il controllo dell’intera filiera (produzione, arrivo della merce nei porti, confezionamento, commercializzazione nei mercati all’ingrosso e nella grande distribuzione) sono stati confermati dal ministro della Giustizia Orlando, sottolineando che ogni passaggio della filiera illecita produce fatturati enormi». Ma quali sono i prodotti più interessati dal fenomeno? Il comparto lattiero-caseario, quello vitivinicolo e quello oleario, spiega la relazione, «sono tutti oggetto di una vera e propria aggressione da parte della criminalità organizzata di stampo mafioso». Non mancano altri comparti infiltrati dalla criminalità organizzata. La macellazione bovina ed equina, ad esempio. Il settore della pesca e dei mercati ittici. Persino la filiera del pane e della pasta.

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