TaccolaI robot europei aiutano le persone, quelli americani fanno la guerra

Avete presente il robot che fa la capriola? È finanziato dal Dipartimento della Difesa Usa, come gran parte della ricerca nella robotica americana. In Europa e Giappone l’approccio è opposto e più attento ai bisogni della società. Alla Maker Faire di Roma una mostra la racconta

Quando sui social network ha cominciato a girare il video del robot umanoide Atlas di Boston Dynamics, quello che saltava sui blocchi azzurri e terminava l’esibizione con una capriola all’indietro, le reazioni di chi lo guardava sono state soprattutto di due tipi: di meraviglia e di paura per le applicazioni che un robot tanto evoluto potrebbe avere nel lavoro e in campo militare. Quest’ultima non è una preoccupazione del tutto infondata, per un motivo semplice: molti dei prototipi sviluppati dalla società sono finanziati dal Dipartimento della Difesa Usa, l’equivalente del nostro ministero della Difesa. È questa una delle grandi differenze che segnano la distanza nella ricerca sulla robotica nelle due sponde dell’Atlantico: negli Usa il grosso dei finanziamenti viene dal settore militare, in Europa gli scopi della ricerca devono essere esplicitamente non bellici. Per parafrasare un celebre saggio di Robert Kagan, si potrebbe dire che i robot europei vengono da Venere e quelli americani da Marte. Una distinzione che si ricalca nell’impostazione data dalle altre due superpotenze della robotica: il Giappone, dove l’impostazione anti-militarista è ancora più accentuata, e la Cina, i cui enormi investimenti si stanno concentrando, oltre che sull’industria – in ossequio al piano Made in China 2025 – sulla difesa. Anche se, è doveroso dirlo, sono infiniti gli esempi di applicazioni militari che in seguito trovano diffusione nel mondo civile, dal Gps ai sistemi di teleconferenza.

A spiegarlo è uno dei massimi esperti internazionali di robotica, il professor Bruno Siciliano, coordinatore del corso di Ingegneria dell’Automazione all’Università Federico II di Napoli. Il docente ha allestito una mostra presso la Maker Faire di Roma e oggi, sabato 2 dicembre, interverrà a un incontro sui risvolti etici e sociali della robotica, dal titolo “Robots: What’s next?”. «Il grosso della ricerca in America, e Boston Dynamics non fa eccezione, è finanziata dalla Darpa, l’agenzia del Department of Defense, per applicazioni di difesa – sottolinea -. Atlas e il progetto precedente, il robot BigDog (a quattro zampe, ndr), sono progetti di questo tipo».

Negli Stati Uniti, aggiunge, ci sono due eccezioni. La prima è quella dei gruppi di ricerca che lavorano sulla “robotic for heath”, ossia tutte le applicazioni di chirugia e riabilitazione, finanziate dal National Institute of Health. La seconda è quella della parte imprenditoriale, che è baricentratata sulla Silicon Valley e ha come protagonista principale Google, che acquisì Boston Dynamics prima di venderla alla giapponese SoftBank. «Conosco molto bene il fondatore di Boston Dynamics, Marc Raibert. Il robot Atlas è spettacolare, ha dietro un grosso sforzo tecnologico, soprattutto relativo a meccanismi di attuazione non convenzionali, che permettono quei salti strabilianti. Va però detto che la società non ha mai divulgato come arriva a ottenere quei risultati. Dai video non si capisce, per esempio, se i robot siano autonomi o pilotati. Il motivo è che le informazioni sono secretate», perché le applicazioni sono di difesa.

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Negli Usa il grosso dei finanziamenti viene dal settore militare, in Europa gli scopi della ricerca devono essere esplicitamente non bellici. Per parafrasare un celebre saggio di Robert Kagan, si potrebbe dire che i robot europei vengono da Venere e quelli americani da Marte. Anche se le applicazioni militari hanno spesso ricadute di tipo civile

Radicalmente diverso è l’approccio nel Vecchio Continente. «Chiunque faccia un progetto europeo – spiega Siciliano – trova un disclaimer che chiede di garantire che il progetto non sia per scopi bellici. In Giappone le regole sono ancora più severe rispetto all’Europa».

A volte il confine tra le applicazioni civili e militari è però sottile. Prendiamo il caso di Homayoon Kazerooni, diventato famoso nel mondo per gli esoscheletri che hanno permesso a chi ha gravi problemi di mobilità di rimettersi in piedi agli operai di sollevare pesi senza compromettere la schiena. «Da diverso tempo si trova in Cina», spiega il professore, «dove utilizzano questa tecnologia per scopi di difesa. Lo zaino intelligente che aveva realizzato è già stato utilizzato dai marine americani nelle campagne del Pacifico per trasportare attrezzature molto pesanti e ingombranti. È uno zaino collegato a terminazioni nervose con una compensazione del peso per cui il soldato non sente i 40-50 kg di attrezzatura ma un peso apparente di 4 chilogrammi».

La difesa europea non ricorre a robot? «Vi ricorre ma per applicazioni di tipo civile – risponde -. In seguito all’ultimo terremoto nel Centro Italia i colleghi del Centro Piaggio hanno fatto ispezioni negli edifici pericolanti utilizzando robot. Un ragazzo bosniaco che ha effettuato il master qui a Napoli e il dottorato a Bruxelles è stato chiamato dalla Protezione Civile per utilizzare i droni per raggiungere zone isolate». Oltre a questo ci sono poi applicazioni più strettamente militari. «Qualche anno fa ho avuto una collaborazione con la Oto Melara di La Spezia, in quel caso mettemmo a punto un robot per lo sminamento».

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«Chiunque faccia un progetto europeo – spiega Siciliano – trova un disclaimer che chiede di garantire che il progetto non sia per scopi bellici»

L’importanza dei risvolti sociali delle robotica è uno dei punti fissi del professor Siciliano. Il Prisma Lab, un laboratorio dell’Università Federico II a cui partecipano altre cinque università, si è gradualmente esteso dalle sole applicazioni alla robotica di servizio, che comprende anche i robot di assistenza e compagnia. Sono temi che ha curato anche come presidente della IEEE Robotics and Automation Society, la società internazionale di robotica e automazione. E che in questi giorni porta alla Maker Faire Rome, attraverso un’area appositamente dedicata di 400 mq che racconta le esperienze di 13 gruppi di ricerca universitari italiani tra i più noti a livello internazionale. Sono esposti robot umanoidi, stampanti 3D antropomorfe, robot con intelligenza artificiale, dedicati alle attività quotidiane o applicati all’industria e alla medicina, robot domestici e calciatori.

Tra le applicazioni esposte c’è un esoscheletro sviluppato dalla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e da una startup figliata dall’università, Iuvo, che di recente è stata acquisita da Comau (gruppo Fca) e dalla società islandese di bioingegneria Össur. È rivolta a persone paraplegiche, colpite da malattie degenerative oppure per chi fa percorsi di riabilitazione. C’è poi una “Soft-Hand”, sviluppata sempre dalla IIT e Scuoa Sant’Anna, dove il docente di riferimento è l’ex ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che alla Maker Faire presenterà il libro “I robot e noi” (Il Mulino). «La particolarità della mano artificiale Soft Hand è che è low cost, costa circa 4-5.000 euro, contro i prezzi che in altri casi partono da 16mila per arrivare a 100mila euro».

La robotica che diventa low cost è uno dei motivi dell’impegno – a titolo gratuito – del docente di robotica alla Maker Faire, che è promossa dalla Camera di Commercio di Roma e il cui curatore è Massimo Banzi, co-fondatore e presidente di Arduino. «Chi fa ricerca avanzata – dice Siciliano – ha sempre visto l’aspetto hobbistico della fiera, lontano dai percorsi rigorosi di ricerca. Ma i due mondi si sono avvicinati». Grazie a strumenti low cost «da una parte abbiamo maker che hanno realizzato dei robot hobbistici, dall’altra laboratori di ricerca che hanno sviluppato robot a basso costo utili dal punto di vista sociale». A proposito di risvolti sociali, il docente tende a vedere i risvolti positivi sul fronte del lavoro, soprattutto grazie all’introduzione di “cobot”, robot collaborativi che rendono meno gravosi compiti di fatica o in contesti non salubri come le acciaierie.

«Chi fa ricerca avanzata ha sempre visto l’aspetto hobbistico della fiera, lontano dai percorsi rigorosi di ricerca. Ma i due mondi si sono avvicinati, grazie ai materiali e ai sistemi di progettazione a basso costo»

L’esposizione è anche un modo per parlare con gli studenti, con la consapevolezza, aggiunge Siciliano, che la robotica sia una porta che avvicina gli studenti alle lauree tecnologiche e scientifiche. «C’è molto interesse. Nel corso di cui sono coordinatore gli iscritti sono passati da 122 dell’anno scorso a 193 di quest’anno e il dato è provvisorio. Il 100% dei laureati lavora e lo stipendio di ingresso dei laureati è di 200 euro superiore alla media», commenta.

Alla Maker Faire si parlerà dei punti di forza della robotica italiana. «L’Italia – spiega – è all’avanguardia in diversi settori di ricerca e sviluppo in robotica. Basti pensare che, nell’ambito del Settimo Programma Quadro della Comunità Europea, il 16,5% dei finanziamenti a progetti di robotica è stato assegnato a istituzioni italiane, a fronte di uno share del 13% di finanziamento della ricerca comunitaria nei vari settori».

È anche un’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa rispetto alla scelta degli ultimi governi di privilegiare nei finanziamenti l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, anch’esso presente alla Maker Faire. «Lo ha sottolineato anche la senatrice a vita Elena Cattaneo: da 11-12 anni Italia ha deciso che l’eccellenza si decide per decreto – commenta Bruno Sicialiano – . L’IIT, dove lavorano ottime persone e amici, gode di finanziamenti per 100 milioni di euro all’anno. I gruppi di ricerca delle altre sedi hanno subito l’ombra di questo istituto aggiunge – ma noi non ci sentiamo secondi. La Federico II di Napoli, con il suo staff di 20 persone, ha ottenuto finanziamenti euro per 10 milioni di euro, attraverso 17 progetti di ricerca. L’IIT con 150 persone ottiene finanziamenti europei per 15 milioni». In Francia e Germania – conclude – i grandi centri di ricerca pubblici per ottenere i finanziamenti devono vincere dei bandi. Per questi motivi, «è una buona notizia quella data a settembre dalla ministra dell’Istruzione e Ricerca Fedeli, che saranno stanziati 400 milioni di euro per la ricerca di base, di cui 250 milioni saranno attinti dalle disponibilità liquide dell’Iit di Genova».

«L’IIT ha finanziamenti per 100 milioni di euro all’anno e i gruppi di ricerca delle altre sedi hanno subito l’ombra di questo istituto. Ma noi non ci sentiamo secondi. La Federico II di Napoli, con il suo staff di 20 persone, ha ottenuto finanziamenti euro per 10 milioni di euro, attraverso 17 progetti di ricerca. L’IIT con 150 persone ottiene finanziamenti europei per 15 milioni»

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