La favola dell’Ikea è finita. L’isola felice del mobile, paradiso del welfare svedese e dei buoni rapporti sindacali in terra italiana, è diventata ormai un campo minato di malumori e rivendicazioni. E non solo per l’indagine aperta dalla Ue per la presunta evasione fiscale. Anche i docili scandinavi si sono trasformati in padroni senza scrupoli. Prima è arrivato il licenziamento a Corsico della mamma che non riusciva a stare al passo con i turni, finito sui banchi del Parlamento. Poi sono stati mandati a casa altri lavoratori a Roma e Bari. Mentre tra le corsie di Billy e Kallax non si respira più quell’aria del Nord, tutta lucine di Natale e biscotti allo zenzero. Colpa del “cervellone”, l’algoritmo che Ikea ha messo a punto per gestire i turni dei dipendenti e che non tiene più conto del fattore umano. E di una nuova linea aziendale di chiusura verso i sindacati, che ha spinto la Filcams Cgil a scrivere addirittura una lettera all’ambasciatore e ai consoli di Svezia in Italia, invitandoli ad avviare un’attività di “moral suasion” nei confronti della società presente nel nostro Paese dagli anni Settanta.
«Sulla responsabilità sociale d’impresa, sulla volontà di avere un impatto positivo sulle persone Ikea ha costruito, nel corso di decenni, la propria immagine, ma ha profondamente mutato, e di certo in peggio, i termini della sua impostazione imprenditoriale e della sua missione in Italia», si legge.
«La situazione», spiega Fabrizio Russo, segretario nazionale Filcams Cgil, «ha cominciato a degenerare nel 2015/2016, quando l’azienda ha rinegoziato al ribasso il contratto integrativo, riducendo le maggiorazioni per i festivi e i premi aziendali, nonostante i risultati economici fossero tutt’altro che negativi». Il contratto venne approvato con un referendum tra i lavoratori, che votarono sì al 73 per cento. Ma il “caso” volle che quello stesso anno Ikea raggiungesse il record di incassi. «Da allora l’atteggiamento verso i sindacati e i lavoratori si è irrigidito», racconta Russo. E le decisioni, che prima venivano condivise, «hanno cominciato a calare dall’alto».
Come l’introduzione del “cervellone” per l’elaborazione dei turni. In passato erano i capi reparto a compilare gli orari, tenendo conto delle esigenze di tutti. Ora decide l’algoritmo. E se non ti adegui, sei fuori. Marica Ricutti, dipendente dell’Ikea di Corsico e madre separata di due bambini, di cui uno disabile, non riusciva ad anticipare alle 7 l’inizio del turno del mattino ed è stata accompagnata alla porta dopo 17 anni di lavoro in azienda.
In passato erano i capi reparto a compilare gli orari, tenendo conto delle esigenze di tutti. Ora decide l’algoritmo. E se non stai al passo, sei fuori
«Il “cervellone” è stato inserito poco più di un anno fa unilateralmente, senza consultare lavoratori e sindacati», spiega Barbara, delegata sindacale Filcams nel punto vendita di Corsico, nell’hinterland milanese. L’azienda ha individuato la nuova figura dello start planner, che inserisce i dati nel software. L’algoritmo poi tiene conto dei flussi di clienti (in base allo storico), del traffico per strada e anche delle previsioni meteorologiche (nel caso di una giornata di pioggia ci saranno maggiori clienti) e alla fine detta i turni. I responsabili dei reparti non possono far altro che comunicarli ai dipendenti. Punto. Eppure nel nuovo contratto integrativo le parti si erano impegnate a mettere a punto il sistema TIME, sigla che sta per Trovare Insieme il Migliore Equilibrio, che avrebbe dovuto offrire ai lavoratori un canale per partecipare alla scelta degli orari di lavoro.
Ma il welfare non abita più tra i divani Ektorp e le cassettiere Malm. E quando i sindacati hanno chiesto un incontro per capire meglio come funziona l’algoritmo, dall’azienda hanno risposto picche. Ma non è sempre stato così. Nel negozio di Corsico, ad esempio, i lavoratori si erano auto organizzati, creando un sistema premiante per chi accettava gli spostamenti dei turni nel corso dei festivi e delle aperture prolungate. E tutto funzionava in armonia. «Così eravamo riusciti a coniugare il bisogno di flessibilità dell’azienda, con il bisogno dei dipendenti», raccontano. E lo stesso avevano fatto in altri punti vendita, soprattutto quelli storici. Riuscendo a conciliare vita e lavoro, materia in cui la Svezia ha sempre fatto da modello in Europa.
«Il clima ora è cambiato», dice Russo. «Oltre al caso della mamma di Corsico, ci sono stati altri licenziamenti a Roma e Bari. E da Nord a Sud stanno emergendo diversi casi di impossibilità di rispettare i turni imposti per problemi familiari». Anche perché dei circa 6mila lavoratori Ikea di tutta Italia, più o meno il 70% è composto da donne. Molte con contratti part time, da 700-800 euro al mese.
L’immagine dell’azienda buona e aperta, che diffonde nelle pubblicità e nei cataloghi, è in contraddizione rispetto al trattamento che sta riservando ai lavoratori. O dobbiamo pensare che il principio della persona al centro valga per tutti tranne per i lavoratori Ikea? Se il welfare svedese è questo, ci teniamo quello italiano
Ma nei 21 negozi sparsi in tutta Italia le condizioni lavorative non sono le stesse. E chi è arrivato prima sta meglio degli ultimi. Se tra i vecchi assunti i contratti sono quasi tutti a tempo indeterminato, tra i nuovi assunti e i punti vendita di appena aperti spopolano i tempi determinati e i contratti di somministrazione, senza che venga applicato il contratto integrativo e senza neanche un contratto nazionale, visto che quello della grande distribuzione è scaduto da quattro anni. «È chiaro», dicono i lavoratori, «che con questo tipo di contratti, l’azienda fa quello che vuole e i dipendenti accettano i turni senza batter ciglio per la paura di perdere il posto di lavoro. Anche l’Ikea si sta italianizzando».
Dopo il licenziamento di Marica Ricutti, è stata organizzata una giornata di mobilitazione nazionale, il ministero del Lavoro ha addirittura inviato gli ispettori nel punto vendita e in Parlamento ci sono state diverse interrogazioni sul caso. Dalla Uiltucs hanno pure lanciato una campagna, #cambiaIkea, tra volantinaggio, petizioni e post sui social, per chiedere il ritorno al confronto e a quelli che erano i valori fondanti che l’azienda svedese non manca di ostentare in ogni brochure con le offerte del mese.
«L’azienda ha cambiato pelle», dicono i delegati. «Prima si andava d’accordo». Ora «vogliono cancellare il rapporto con il sindacato, puntando a un rapporto one to one con il lavoratore». Secondo il trend seguito da molte delle nuove aziende della platform economy.
«Tutto questo accade in una delle aziende che più fa della condotta etica il proprio tratto distintivo», dice Russo. «Il profilo di Ikea si gioca tutto sull’immaginario del welfare svedese. L’immagine dell’azienda buona e aperta, che diffonde nelle pubblicità e nei cataloghi, però è in contraddizione rispetto al trattamento che sta riservando ai lavoratori. O dobbiamo pensare che il principio della persona al centro valga per tutti tranne per i lavoratori Ikea? Se il welfare svedese è questo, ci teniamo quello italiano».