Tutti lo conoscono: “Try again. Fail again. Fail better”. Cos’è? È il mantra degli startupper, degli appassionati di tech, degli imprenditori della Silicon Valley. È la mentalità di un’epoca riassunta in sei parole: prova, tenta con coraggio, non aver paura di fallire e poi riprova ancora, avendo imparato qualcosa di prezioso dalla tua esperienza. Alla fine – è sottinteso – raggiungerai il successo.
Chi lo ha coniato? Questo lo sanno in pochi. È stato Samuel Beckett, l’autore – per esempio – di Aspettando Godot (la sua opera teatrale più famosa) ma anche di Worstward Ho., un racconto del 1983 che contiene proprio questa frase.
Il problema, almeno per gli startuppari superottimisti, è che l’espressione proviene da un contesto un filino diverso. Basta leggere quello che viene scritto dopo:
First the body. No. First the place. No. First both. Now either. Now the other. Sick of the either try the other. Sick of it back sick of the either. So on. Somehow on. Till sick of both. Throw up and go. Where neither. Till sick of there. Throw up and back. The body again. Where none. The place again. Where none. Try again. Fail again. Better again. Or better worse. Fail worse again. Still worse again. Till sick for good. Throw up for good. Go for good. Where neither for good. Good and all.
Ahi ahi. Che si fa adesso? Un’espressione come “throw up for good” è molto meno gradevole di “fail better” – per non parlare di “Still worse again” – per i techies di tutto il mondo. Come la mettiamo con la citazione? Con ogni probabilità, si continuerà come sempre si è fatto. Ignorando le fonti e le implicazioni, reali, dell’opera originale. Del resto, in una cultura disruptive come quella californiana, non sarà certo questo un problema.